Chi tra i lettori è più pratico di storia sovietica, conoscerà
senz’altro un nome che su tutti ha spiccato il volo dell’analisi
scientifica del fenomeno comunista, quello di Andrea Graziosi.
Riproponendoci di trattarlo in un futuro più o meno prossimo, consci di
averlo nominato solo per un imprescindibile senso dell’onestà verso un
autentico luminare del settore, questa volta traiamo la nostra
ispirazione da una studiosa meno popolare ma sicuramente altrettanto
interessante, la dottoressa Maria Zambalani, attualmente membro del
collegio di slavistica dell’Università di Padova e professore associato
all’Università di Bologna.
Il primo motivo è semplice: non parliamo di
una storica, ma di una linguista. La Zambalani è
infatti laureata in lingua e letteratura russa, una materia che non
avrebbe mai fatto pensare ad un interesse diretto per la storia. Eppure,
le sue pubblicazioni si interessano dei profili storici degli eventi, ma da una prospettiva
letteraria.
Ne deriva la tendenza della ricercatrice a studiare nel dettaglio la censura russa, nella fattispecie sovietica, in virtù della
lettura di molti autori che in gioventù aveva imparato a
conoscere, apprezzare, rilevando le contraddizioni contestualmente
dettate dalla politica di regime.
E’ problema antico quello di conciliare le esigenze artistiche con
quelle di un regime totalitario: si è sostenuto più volte che il secondo
non consenta di far sviluppare le prime, conducendo la sfera culturale
in una sorta di atrofia senza uscita, possibile solo con l’estinzione
del sistema repressivo.
In realtà, questa teoria non è così fondata, per
lo meno non in tutti i casi: certamente la repressione non
aiuta la spontanea manifestazione dell’essere che è propria di qualsiasi
espressione artistico-culturale, ma non si può escludere a priori che
tra gli artisti vi sia chi appoggia spontaneamente e pienamente la
politica di regime. Né tanto meno che l’opera “orientata dall’alto” non
possa trovare fonti di ispirazione spontanea. Sicuramente,
le probabilità di una produzione artistica di prim’ordine diminuiscono.
Nei regimi socialisti ciò era ancor più vero, poiché in questi casi i
limiti pesantissimi della produzione facevano sì che la spada ideologica
calasse la scure non solo sull’aspetto politico ma anche su quello
economico, limitando ancora di più le possibilità espressive degli
scrittori, laddove in un regime “fascista” (per generalizzare) in cui la
proprietà e l’iniziativa private erano concepite, anche se limitate e
discusse, la censura letteraria e giornalistica colpiva solo ed
esclusivamente l’aspetto politico.
Il concetto è ben sottolineato dalla Zambalani nel suo La morte del romanzo. Dall’avanguardia al realismo socialista, dove ella s’interroga proprio delle problematiche appena enunciate, in particolare di quel realismo socialista
ripreso nella forma che tutti conoscevano sin dal 1934, anno della sua
formulazione ufficiale in URSS. Mentore di tale impostazione, Andreij
Zdhanov, che riteneva essenziale conciliare le proposte e le idee
artistiche con la propaganda di regime, quell’abbinamento che in parole
povere mette in dubbio la genuinità delle stesse. Il movimento
avanguardista, che interessò la pittura, la letteratura e la scultura
europee nel Novecento, fu pertanto frenato sul nascere prima in Russia,
poi nel resto dell’impero sovietico, sostituito da una forma ibrida,
basata sull’ispirazione “contestuale” al sistema socialista, ai suoi
dettami, ai dogmi che non si potevano oltrepassare. Il tutto in un clima
che spesso partiva da unità di intenti tra scrittori che sostenevano il
regime e quest’ultimo.
Vladimir Majakovskij |
L’esperienza di Vladimir Majakovskij è emblematica in tal senso:
considerato da tutti il poeta della Rivoluzione, lo scrittore
effettivamente appoggiò il regime fin dai primi giorni, ma il suo
spirito libero, pur in un’ ottica ideologica assolutamente fedele alla
linea, ben presto avrebbe infastidito la classe dirigente
dell’amministrazione staliniana: le idee di Majakorvskij erano di
favorire la discussione e la lettura nelle fabbriche, di approfondire la
dialettica “proletaria”, concetti espressi molto bene nelle prime
pagine del giornale da lui fondato, l’ Iskusstvo Kommuny . Un libertinaggio che un occhio lungimirante non poteva che guardare con sospetto.
Facciamo un salto temporale lungo oltre un trentennio, per approdare
direttamente all’era di Breznev e all’evoluzione che aveva maturato la
censura sovietica a quel tempo: la Zambalani ha pubblicato di recente
un saggio dal titolo Censura, istituzioni e politica letteraria in URSS,
dove descrive con aspro cinismo la “novità” della censura socialista
rispetto a quella di tutti gli altri sistemi basati sulla coercizione,
in particolare rispetto alla precedente società zarista. Mentre durante
la monarchia in Russia v’era essenzialmente repressione, nella nuova
Unione Sovietica si sarebbe sviluppata un’altra caratteristica, quella
della proposizione censoria, che sarebbe stata formulata ufficialmente
con il Congresso degli Scrittori Sovietici del ’34, ma già praticata da
oltre un decennio, con i primi manuali editi nel 1922. Nella fase
Breznev, ma anche in precedenza con Krusciov, scrive la Zambalani, tutto
si evolveva all’insegna della continuità. E, possibilmente, anche della
prevenzione. Addirittura sostenitori occidentali dell’URSS come Jean
Paul Sartre venivano stravolti in sede di traduzione, laddove le loro
affermazioni lasciassero il minimo dubbio sull’efficacia del messaggio
propagandistico.
Andrej Tarkovskij |
A volte poi, il valore artistico dell’autore riusciva a superare per
qualche istante le maglie strette della censura. Si ricordi
l’esperienza del regista Andrej Tarkovskij, che negli anni ’70
partorisce due dei suoi capolavori più acclamati, Lo Specchio (1974) e Stalker
(1979). Nonostante poteri che avrebbero permesso ben altri
provvedimenti, l’amministrazione brezneviana si schierò violentemente
contro la prima pellicola, non eliminandola però dalla circolazione, ma
ostacolandone la promozione e la diffusione. Fu così che Lo Specchio
venne proiettato in sale di second’ordine e per poco tempo, mentre
all’estero gli venne preclusa la possibilità di concorrere per i premi
più prestigiosi, come la Palma d’Oro a Cannes. Questo non impedì alla
pellicola di riscuotere un successo notevole, tanto da divenire un cult
già all’epoca.
Per concludere, ci pare utile allargare i nostri orizzonti oltre
quelli dell’URSS, rivolgendoci all’attività che le censure svolsero in
tutto il blocco, che inevitabilmente risentì nel dopoguerra delle linee
programmatiche di Mosca affrontando le stesse difficoltà: tra i numerosi
esempi, possiamo citare la Repubblica Popolare d’Albania, regime
insediatosi dal 1945 al 1989 e guidato da Enver Hoxha fino al 1985.
Hoxha citava direttamente Zhdanov, rimarcando l’importanza della
questione. Troviamo alcuni estratti delle sue dichiarazioni in un saggio
di Leone Venticinque, Il Lavoratore della letteratura e delle arti: l’Albania di Enver Hoxha:
Il compagno Zhdanov dice “Il leninismo parte dal principio: la nostra letteratura non può essere apolitica, non può rappresentare in sé ‘l’arte per l’arte’, ma è stata chiamata per adempiere ad un ruolo d’avanguardia e importante nella vita sociale”.
e ancora, sostenendo la similitudine professionale tra un artista e un qualsiasi lavoratore di fabbrica, quasi come se il primosi muovesse meccanicamente come il secondo:
Si dice che oggi in Unione Sovietica ci sono scrittori che si sono distolti da qualsiasi altro impiego per occuparsi della propria creazione letteraria, ma teniamo conto che, all’inizio, anch’essi hanno lavorato dove era necessario, alcuni in fabbrica, e nello stesso tempo scrivevano.
Pensieri che, indubbiamente, rimarcano ancora le dimensioni della censura di tipo sovietico. Un controllo stretto che
per necessità strutturali non poteva che soffocare l’artista ad un
limite estremo e ben superiore di quello osservato nei regimi
assolutistici o di destra. Questo per la considerazione che facevamo in
sede introduttiva. Una società di tipo sovietico era inevitabilmente
stretta tra due necessità fondamentali: la prima, di garantire la
stabilità assoluta del potere politico, la seconda di mantenere in piedi
un sistema contrario agli istinti umani in tema di libera iniziativa.
Le società tradizionaliste o quelle che ritenevano di rappresentare un
“superamento del socialismo” come quella fascista, non risentivano del
secondo problema, dovendosi concentrare principalmente sulla repressione
degli oppositori squisitamente politici.
Quanto all’altro nodo, sulle possibilità espressive in
tempo di regime, la storia ha ampiamente dimostrato che non esista in
senso assoluto: abbiamo elencato voci di letterati come Majakovskij che
per loro fortuna appoggiavano pienamente l’ideologia ufficiale, oppure
di registi che la contestavano velatamente come Tarkovskji, e in
entrambi i casi abbiamo assistito all’emersione della loro espressività.
Rivolgendoci ai regimi di destra, possiamo notare che nel ventennio
fascista sono emerse figure sostenitrici come quella di Pirandello, e di
aperta opposizione come quella di Benedetto Croce, senza che se ne
discutesse il valore, anzi, addirittura rinunciando, da parte fascista,
ad una repressione concreta come avveniva abitualmente per i
“tradizionali” e meno altisonanti oppositori.
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