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A Walt Disney Silly Symphony!

venerdì 23 dicembre 2016

Nichilismo e odio per la vita: ecco cosa è stato quell'Attimo Fuggente



Ho riguardato, come avviene ogni tanto, L'attimo fuggente di Peter Weir, anno 1989.  La mia mente ha stampato con passione il trailer che passavano in televisione quando ero bambino, e ricordo che, senza essere falsamente revisionisti, da ragazzo mi piacque molto.
Posso anche ammetterlo: mi piace tutt'ora. Sono sempre stato molto attento a scindere il gusto di un film dai valori che propone: se così non fosse, probabilmente dovrei rinunciare ad una delle mie grandi passioni, indi a guardare il 90% delle pellicole che vengono proposte che siano di mio interesse. Forse qualcosa di meno, ma siamo lì.

All'epoca il film interpretato da Robin Williams ottenne una pioggia di consensi, non solo rappresentati dai quattro Oscar, ma anche da una diffusa patina messianico-educativa a rimarcare il suo messaggio, improntato sulla semplificazione e banalizzazione estrema del concetto latino di carpe diem, del godere la vita appieno, del non studiare la letteratura seguendo rigidi schemi matematici, nella pretesa di verità che dei ragazzi di liceo dovrebbero possedere in barba a qualsiasi principio di aurorità genitoriale, considerata a priori insensibile, incapace di comprendere, a differenza di un giovane protagonista che, tra i tanti presenti nella classe di allievi del Professor Keating (Robin Williams, appunto), sogna di fare l'attore ed è già pienamente e incredibilmente consapevole, esattamente come il suo insegnante, che sarà la strada della sua vita.

Dopo 27 anni di rilevazioni critiche su questi temi ce ne sono ancora pochissime: qualche blog isolato come il mio, ma, sorprendentemente, anche Christian Raimo su Internazionale. Personalmente, non ho letto altro.

L'aura di insindacabilità del messaggio del film, di quell'inno alla libertà e alle piene scelte autonome dei giovani, sostanzialmente non è stata toccata. Non solo: professori marchigiani  ne hanno fatto un modello per i loro metodi didattici, dando come compiti per le vacanze ai propri studenti cose del tipo "camminare sulla spiaggia e "sentirsi felici", ballare senza timidezza, rilassarsi.

In ogni caso, dei due articoli che rilevano il messaggio profondamente diseducativo del film di Weir, mi sento di condividere più o meno tutto. La famosa scena dello "strappo" del libro di analisi logica mi riporta alla mente - similmente a quanto avviene per Raimo - l'importanza della stessa nella mia vita di alunno, la costrizione con cui la facevo e anche il sacrificio dello studio, ma soprattutto ciò che mi ha lasciato dopo: bagaglio, tecnica, capacità di sintesi. Mentalità e metodo.

Questo perché, banalmente, ho recepito negli anni ciò che studiavo - senza necessariamente apprezzarlo o divertirmici mentre lo studiavo - e l'ho sviluppato, in certi casi, anni dopo. Fanno eccezione la passione per la storia e la filosofia, grosso modo sempre prepotenti in me anche se esplose realmente soltanto negli ultimi tre anni di liceo, grazie ad un professore che faceva dell'arte oratoria una sua qualità talmente seducente da riuscire a rendere interessante la materia anche ai più asini.

Mio padre da ragazzino mi insegnò il latino e lo spagnolo. Detestavo la sua imposizione e litigammo diverse volte a proposito. Negli anni è stato il più grande tesoro che mi sono portato dietro, dovendogli una gratitudine che non sono mai riuscito ad esprimergli quando era in vita.

Prima accennavo alla storia di Neil, il ragazzo appassionato di teatro incoraggiato dal professor Keating a dire al padre, contrario alla sua attività e già deciso a fargli intraprendere la carriera di medico, "ciò che sente". Neil continua a fare di testa sua e, ovviamente colto sul fatto dal padre, verrà portato via dalla sua passione e condotto verso la strada per lui già decisa. La risposta di Neil, benedetta dal "messaggio edificante" del film, è quella di uccidersi.

Ammesso e non concesso che nel mondo reale un ragazzo adolescente possa già sapere con certezza che "recitare è tutto per me" (cosa indubbiamente possibile, sebbene molto rara) non ci vuole un genio per capire che la vita reale sia qualcosa di molto diverso dalla storia dello sfortunato in questione. È fatta, in caso di completa ostilità con un genitore, di anni di lotte o di anni di sottomissione, ma non certo dell'autoprivazione della vita come ciò che fa Neil, in questo perfetto rappresentante della cultura della morte che permea gran parte della società contemporanea che viviamo ancora oggi. Ed è fatta, nel caso in cui il genitore abbia ragione - cosa che il film esclude praticamente a priori - anche del potere di consiglio e di indirizzo di quest'ultimo, che non nasce, contrariamente a ciò che ci insegnano da troppi anni, per assecondare il volere e il desiderio dei figli sempre e comunque.

"Le cose non vanno come vorrei, tanto vale farla finita". Somiglia tanto alla cultura dell'aborto e dell'eutanasia, di quel "non si può crescere, tanto vale non far nascere" o "non si può curare, tanto vale morire". Quella idea malsana che rinuncia a comprendere la più banale delle verità: che non sappiamo cosa ci attende e non possiamo in nessun modo prevederlo. Un figlio non aspettato o non voluto può essere una gioia, esattamente come può esserlo un figlio dato in adozione: nulla può escludere un'esistenza o anche solo un momento di felicità a nessuno. Anche per un figlio il cui padre ostacola la "certezza di voler recitare".

Chi scrive non parla per sentito dire o per supponenza, ma per amara esperienza: lo fa perché sa cosa vuol dire essere "malati di fretta", del volere tutto e subito, e di rammaricarsi, con gli anni, di non aver saputo attendere. Lo fa perché è stato tra le vittime di questa maleducazione etica, contraria alla vita prima ancora che allo spirito dell'uomo.

L'attimo fuggente è figlio della cultura della libertà estrema. Quella che maledice la Riforma Gentile in casa nostra e non si rende conto quanto abbia contribuito a produrre generazioni di professionisti di livello assoluto, nello stesso insegnamento come nella politica. Di contro, i risultati dei cambiamenti avvenuti negli anni Sessanta (non solo in Italia, ma in tutto l'Occidente) hanno prodotto generazioni enormemente più mediocri, con la differenza che nessuno si chiede il perché, mantenendo però la saccenza di chi pretende pure di essere nel giusto.

Ma forse, in quel caso, si rimedia a tutto pensando che Gentile era fascista, quella semplificazione che serve ad assolvere tutto, anche il peggiore dei crimini pedagogici.

È una generazione, quella della libertà e dell'abolizione di metodo e regole, che ha perso su tutta la linea rispetto alla precedente. Ma nonostante ciò, insiste nelle sue nefandezze. Per fortuna non ci sono molti professor Keating in giro: probabilmente in quello il messaggio del film, pur nell'esempio estremamente negativo perpetrato, è troppo irrealistico per poter essere tradotto in realtà. Ripeto: per fortuna.







giovedì 22 dicembre 2016

Un Presepe per dire, nonostante tutto: "Buon Natale, Italia"


Breve favola sul presepe.

La più antica visione pittorica dello stesso risale addirittura all'Impero romano, grosso modo al III secolo d.C. quando iniziò ad essere rappresentata la nativitità. 
Poi, tanti centenari dopo, è San Francesco d'Assisi a rappresentare solidamente, nel rietino e nell'Italia centrale del XIII secolo, una mangiatoia con degli animali in una grotta, nonché la pastorizia di Betlemme (mancavano Gesù, Giuseppe e Maria).

Nel Quattrocento, il presepe si diffondeva verso Nord, nell'Emilia. Nel secolo successivo il Regno di Napoli avrebbe accolto la tradizione e l'avrebbe diffusa nel Sud. 
L'ultimo grosso sviluppo è del Settecento, quando si diffondono quasi contemporaneamente le tradizioni napoletane, bolognesi e genovesi. 

Dedicata a tutti quelli che "l'Italia non esiste" o "esiste dal 1860". 

Il presepe, così come tanti altri fenomeni culturali, ha creato la Nazione secoli prima che ci fosse lo Stato. Con una particolare concentrazione di diffusione proprio nel periodo in cui nella pittura Caravaggio faceva scuola anche a Napoli, lasciando la strada ad eredi meridionali come i Salvator Rosa e i Luca Giordano, che avrebbero dipinto anche a Roma, Firenze e Milano.

Il presepe forse è la più genuina di queste formazioni culturali spontanee della nostra storia. 

Perché non è la classica arte italiana di quella élite unitaria che andrebbe comunque rispettata e glorificata ogni giorno per quanto ha prodotto nei secoli successivi al 476 d.C. È un'arte che, prima di arrivare nelle case di tutti, veniva realizzata da tutti, proprio da quel popolo diviso per circa 1500 anni che oggi rischia di estinguersi, come altri in questo Occidente disastrato. Lo sta facendo anche perché sta smarrendo il significato di queste tradizioni, di cui non si cura o peggio non si interessa.

Auguri, Italia.