
Andreij Amalrik non è stato un semplice scrittore: l’ autore del famoso saggio
Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?, che ho avuto il piacere
di leggere, evidenzia tratti di lucidità analitica poco
comuni nel mondo letterario, tra le sue righe si scorgono gli intenti
di un critico, difficilmente identificabile come un oppositore al regime
comunista o quale sostenitore dell’introduzione del libero mercato. Il
motivo è presto detto: Amalrik, nato nel 1938, apparteneva a quella
generazione cresciuta in toto nel contesto dell’educazione sovietica e
delle propagande di regime, per non parlare della totale chiusura verso
l’esterno, fattore che influenzò sicuramente coloro che vivevano
all’interno del sistema. Come sottolinea molto bene Carlo Bo nella
prefazione, Amalrik analizza semplicemente ciò che è sotto il proprio
naso, non esprime neanche dei veri e propri giudizi, a ben vedere:
descrittivo, parla dei motivi per i quali il socialismo
sovietico in cui è cresciuto sarà destinato, a suo giudizio, a morire.
Non propone modelli alternativi, (non ne può concepire, se non di
anacronistici) non si lancia in una campagna anti-sovietica tanto facile
quanto sterile.
Quando lessi questo testo, bramavo di curiosità, per una serie di ragioni.
Sicuramente
il titolo ha il suo richiamo, da solo è sufficiente a catturare
l’attenzione di qualsiasi lettore, anche non strettamente interessato
alla storia, ma ci sono altri fattori. Per dirne una, ero davvero
curioso di vedere come in un testo di appena 110 pagine si potessero
mettere a fuoco tutti i motivi che avrebbero condotto, dal 1969 (periodo
della stesura) ai quindici anni successivi, un vero e proprio gigante
come l’URSS a crollare miseramente, in un’ epoca in cui nessun
osservatore occidentale lo avrebbe pensato minimamente.
Amalrik,
incredibilmente, ci riesce: erra, com’è ovvio, sull’anno del crollo del
gigante socialista, ma non gliene si può fare un torto.
L’impero
sovietico sopravviverà sì al 1984, ma basteranno appena sette anni
affinchè la visione di Amalrik si concretizzi quasi appieno. Il quasi,
grande come una casa, è qui presente perché nel corso del testo,
l’autore si focalizza su un pronostico quasi ossessivo, un evento a suo
giudizio inevitabile, che avrebbe dovuto generare tutto ciò che poi in
realtà furono le riforme di Gorbaciòv a causare in maniera ben più
tuonante: una supposta guerra con la Cina, il cui scoppio non avrebbe
potuto protrarsi oltre una decina d’anni.
A prescindere dal fatto
che tale evento non si sia verificato, è interessante leggere i motivi
che Amalrik adduce per giustificare una tale conclusione. Preparando il
terreno per un conflitto, egli in realtà sottolinea meglio di chiunque
altro i motivi che avrebbero spinto Pechino al conflitto con Mosca.
Tracciando un quadro superficiale della situazione internazionale di allora,
le due principali potenze facevano capo, come tutti sanno, a Washington e
alla capitale russa. La Cina, pur temibile, era considerata un gradino
al di sotto, soprattutto nel campo militare, dove la produzione di
armamenti non raggiungeva minimamente le vette dell’Unione Sovietica, e di
conseguenza poteva tutto meno che scontrarsi con lo strapotere
americano.
Qualche osservatore poco attento dell’epoca, avrebbe
sostenuto che l’ostilità che Mao, gradualmente ma inesorabilmente,
dimostrò all’URSS dal 1949 in poi, fosse frutto di una questione
puramente ideologica, quella del “revisionismo sovietico” traditore
dell’ortodossia marxista, oltre che dal “semplice” desiderio di
conquistare il predominio nel campo socialista. Amalrik smentisce con molta schiettezza questa leggenda metropolitana (ma potremmo quasi definirla "leggenda dialettica"): Pechino
desiderava semplicemente un salto di qualità del proprio status
internazionale, era logico che questo non potesse avvenire ai danni
degli Stati Uniti, in primis per la posizione geografica (troppo
distante dagli USA per poter pensare di sconfiggerli
con le proprie forze) e in secondo luogo per il naturale interesse che i
cinesi avrebbero nutrito per le immense distese orientali dell’
ex-impero russo, in quanto foriere di espansione territoriale nonché di
insediamento demografico per un paese che, già allora, contava 800
milioni di individui. Pertanto, mascherando i reali obiettivi in nome
dell’internazionalismo socialista, Mao propose a Stalin di unificare i
due stati, al fine di ottenere una supremazia che, alla luce della
nettissima maggioranza dei cinesi, sarebbe stata scontata, come scontata
fu la risposta negativa del leader sovietico. E’ notevole l’acume
dell’autore in questo frangente: il ragionamento non fa una grinza, così
come tutte le considerazioni politiche pienamente in linea con quella
che era la situazione internazionale alla fine degli anni ’60. Perché,
quindi, la previsione di Amalrik non si verifica?
Fondamentalmente,
egli non mette in conto (né avrebbe potuto farlo, ovviamente) due
eventi che si riveleranno decisivi per smentirlo. Il primo è costituito dalla morte di Mao: non potendo intuire gli
osservatori esterni quanto il regime cinese costituisse una struttura a
sé stante e quanto essa invece dipendesse dalla personalità del proprio
capo, non si sarebbero potuti fare una ragionevole opinione della
politica che avrebbero attuato i successori di Tse Tung. Il regime
cinese avrebbe dimostrato di poter costituire una struttura solida, ma
fortemente indebolita ideologicamente dalla scomparsa del suo capo, nel
1976. Il che ci conduce direttamente al secondo evento, ancora più
imprevedibile del primo: l’inizio di una liberalizzazione economica
della Cina (pur graduale e molto lenta, almeno da principio). E’ chiaro
che un’operazione del genere allontanò progressivamente il regime di Pechino da una diretta competizione militare con l’URSS, concentrandosi
anzitutto su un progetto di sviluppo economico e consolidamento interno
che sarebbe proseguito con ancor maggiore decisione nei decenni
successivi, fino ai giorni nostri. Un terzo e opzionale fattore potrebbe
trovarsi nell’invasione sovietica in Afghanistan, sul quale si concentrarono le
immense risorse militari disposte dal Cremlino. Mi pare però, francamente, meno
influente rispetto ai primi due, per un semplice motivo: sebbene Amalrik
affermi che sarebbe stata la Cina a provocare e l’URSS ad offendere, è
plausibile che quest’ultima, ove si fosse concretata una possibilità di
scontro, avrebbe volentieri sacrificato l’acquisizione politica in Asia
centrale per dare la priorità assoluta alla difesa della supremazia
nord-orientale, a lungo contrastata dai cinesi.
Un errore di fondo
invece è costituito dalle conclusioni eccessivamente differenziate che
egli trae dall’analisi del dissenso interno. L’epoca in cui scrive
testimonia come, pur in maniera sempre blanda ed estremamente graduale,
il regime di Mosca avesse allentato le briglie della repressione, per lo
meno rispetto all’epoca stalinista.
Ha ragione Amalrik quando
analizza le ragioni sociali di questo cambiamento, come il
consolidamento di una folta schiera di professionisti formati dal
regime, il maggiore livello intellettuale della “classe media” come egli
definisce proprio quella dei tecnici (destinata inevitabilmente a
crescere e ad assumere posizioni di sempre maggiore rilievo nella
società sovietica, costringendo il regime a posizioni sempre più blande).
Riflette forse meno, invece, quando esclude che una crescita possa
verificarsi anche nel regime pechinese, spingendo, in qualche modo, il
governo alla liberalizzazione e al progressivo allontanamento da una
competizione strettamente militare con Mosca: non solo questo avvenne,
ma le estreme gradualità e attenzione permisero alla Repubblica Popolare
di sopravvivere, a differenza dell’URSS. Ciò detto, è chiaro che la
svolta economica del regime di Pechino non esaurisce il novero delle
proprie cause esclusivamente nella morte del suo leader, avendo esso
origini piuttosto eterogenee che non è il caso di approfondire in questa
sede.
Clamorosa poi la cronaca anticipata degli eventi che
avrebbero scombussolato l’Europa appena due decenni dopo. Amalrik li
descrive quasi tutti: dal crollo a catena degli stati del Patto di
Varsavia al rafforzamento dei dissensi interni, dai fronti popolari
all’indipendentismo delle Repubbliche Baltiche e di altri stati inclusi
nella Federazione sovietica,. La differenza con quella che è stata poi
la realtà sta nel modo in cui tutto ciò sia avvenuto: almeno in questo
senso, si può dire che l’autore sopravvaluti decisamente le possibilità
dell’URSS (fatto che non deve certo sorprendere, considerando che non
aveva metri di paragone: del resto, era egli stesso vittima della
mendacia delle fonti ufficiali), al punto da ritenere che solo un
conflitto di dimensioni piuttosto grosse avrebbe fatto in modo che le
numerose inefficienze strutturali dello stato socialista diventassero
incapaci di riprodursi. E’ poi plausibile ritenere che un conflitto
armato (dalle conseguenze incalcolabili) avrebbe condotto Mosca sul
lastrico e il regime a tirare le cuoia, ma si tratta soltanto di una
supposizione.
Ovviamente, le valutazioni degli esperti dell’epoca sono un’ attenuante per Amalrik: la forza del regime di
Mosca fu sopravvalutata da tutti, anzi in questo senso l’autore
rappresenta uno dei pochissimi che sia stato in grado di prevederne la
scomparsa prematura. Il lato affascinante del libretto è proprio questo.