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A Walt Disney Silly Symphony!

mercoledì 31 dicembre 2014

Tu is megl' che uan: come chiudere l'anno nel migliore dei modi

Sorvolando su pessime esperienze come il terzo Lo Hobbit e l'inguardabile Maleficent, così si chiude l'anno, con due miei amori di vecchia data, David Fincher e Gabriele Salvatores. In particolare il primo rappresenta una tappa enorme della mia adolescenza. Entrambi hanno proposto qualcosa che mi è caro, il ritorno ai temi classici con L'amore bugiardo (Gone Girl in lingua originale) per l'americano, lo stravolgimento dei propri per l'italiano.


Mi innamoro di Fincher quando lo fanno tutti, in una delle occasioni in cui sia stato maggiormente assimilato in vita mia: quel Seven che, tra l'altro, non so quanto oggi potrebbe dire la sua rispetto al contesto dell'epoca (mi prometto di rivederlo al più presto per dare una risposta). Poi è stato un sodalizio continuo: da Fight Club, a Panic Room, perfino a Zodiac che ho adorato molto più di tanti appassionati del regista americano. Quand'è che mi sono perso? In The Social Network. E non perchè fosse un brutto film, anzi. Ma per le sue caratteristiche biografico-romanzate che, in qualche maniera, lo allontanavano dallo stile tipico di Fincher. Se capita occasione di parlarne dico sempre che non sembra neanche un film suo. Da lì in avanti ho maturato la convinzione che Fincher debba dirigere storie originali, o quanto meno non con tonalità storiche così marcate. 
Non è una considerazione molto oggettiva, ma L'amore bugiardo ha tra i suoi pregi quello di confermare il ritorno del regista al suo modo di fare cinema. Un modo che già Millennium aveva anticipato qualche anno fa, ma che ora sembra assurgere a nuova maturità. Chi era con me ha definito Gone Girl  un progetto coraggioso, e mi sento di dare piena ragione a questa affermazione. E' proprio come si snoda la trama ad uscire fuori dai canoni della banalità e della prevedibilità, elementi che, tradizionalmente, appartengono a Fincher da quando lavora. Il tutto in modo coerente, non necessariamente didascalico (forse qualche approfondimento in più avrebbe giovato, ma non fa nulla) e un finale assolutamente perfetto. Cos'altro si può dire? Nulla se non che la Pike sovrasta letteralmente qualsiasi altro collega coinvolto nelle riprese. Affleck è quello che è, non gli si chiede poi tanto, ma se non altro il suo compitino riesce a farlo. Bentornato David.

Gabriele, Gabriele...sì, non ti posso dimenticar. Non c'è onestamente paragone con la storia d'amore per Fincher, ma anche Salvatores ha realmente dipinto la mia passione per il cinema, nonostante un'incostanza notevole (ho adorato Marrakech Express, Mediterraneo, perfino Sud, Io non ho paura, ma ho detestato come pochi altri Amnèsia, Denti, Puerto Escondido). Stavolta ci riprova, 17 anni dopo Nirvana
Non è lo stesso genere, ma è come se lo fosse: quale differenza volete che faccia per un regista italiano uno sci fi tecnologico rispetto ad un racconto fantastico di un supereroe? Poco o nulla, per gli italiani al lavoro sono lo stesso, sconfinato genere: quello che non ci appartiene. Aggiungerei purtroppo, dal momento che - a mio modesto avviso - uno dei (tanti) motivi del crollo patriottico di questo Paese risiede anche nel fatto che il nostro cinema (sebbene artisticamente eccelso, anche se non ai botteghini o per i premi mondiali) non sia nè per bambini nè per adolescenti, ma per colti. O quantomeno per persone di un minimo bagaglio, non certo in grado di apprezzare un film di Pupi Avati quanto quello di un qualsivoglia direttore americano.
Il ragazzo invisibile prova a rompere con questa luminosa (ma incompleta e quindi anche negativa) tradizione, come già Nirvana fece a suo tempo. Ci riesce? Molto meglio di quanto ci si potesse aspettare, meno di quanto avrebbe dovuto fare. Gli effetti, le musiche e l'impatto visivo ci sono tutti. Salvatores ha compreso immediatamente che per riuscire in un film del genere una cosa non la si poteva sbagliare: la scelta del protagonista. E la missione è compiuta, l'esordiente Ludovico Girardello ha uno sguardo magnetico e interpreta alla grande il personaggio: in certe fasi buca letteralmente lo schermo, in altre (quelle di "distensione" dal tema iniziale, per fortuna non la maggioranza) crolla visibilmente, ma ad appena 12 anni non si può non immaginare un gran bel futuro nella professione, se mai deciderà di proseguirla e di studiare.
La sceneggiatura del film tiene tutto a galla in modo coerente, ma nelle fasi di collegamento stenta parecchio: non le danno una grossa mano gli attori secondari, in particolare quelli che interpretano i compagni di scuola del ragazzo, spesso imbarazzanti (il nostro metro è viziato anche dal fatto di aver visto sempre opere del genere in inglese, ed è difficile valutare la capacità degli attori non protagonisti in questo modo). Oltre la mano, offre un vero e proprio braccio Bentivoglio, attore che negli ultimi anni ha avuto una crescita pazzesca (ricordo la sua interpretazione ne Il Capitale Umano di Virzì).
Nel complesso l'ho apprezzato al di sopra della sufficienza. E speriamo che sia di stimolo per progetti futuri. Abbiamo bisogno di storie per ragazzi:  come il pane.

Buon anno a tutti.

mercoledì 24 dicembre 2014

L'importanza della diversità, delle culture e delle razze umane, contro ogni negazionismo

Da La Gabbianella e il Gatto:

"Ti vogliamo tutti bene, Fortunata. E ti vogliamo bene perché sei una gabbiana, una bella gabbiana. Non ti abbiamo contradetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto, perché ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa. Non abbiamo potuto aiutare tua madre, ma te sì. Ti abbiamo protetta fin da quando sei uscita dall'uovo. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. Ti vogliamo gabbiana. Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo i tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l'affetto tra esseri completamente diversi."

Dedicato alla cultura di massa odierna, che non aspira a farci voler bene tra esseri di razze e culture diverse, ma ad omologarci in un'unica razza priva di peculiarità. Una cultura cancerogena, che incita allo spopolamento intere aree del pianeta terra e al sovraffollamento di altre, rovinando lo stesso ecosistema umano e la sua sostenibilità.

Contro l'appiattimento e per la diversità. Sempre!



Un dramma senza fine

Stavo pensando che la situazione tragicomica delle serie televisive italiane raggiunge certe volte dei veri e propri apici: Benvenuti a Tavola sarebbe un soggetto interessantissimo. Sono già due le stagioni della serie ideata Pietro Valsecchi, in cui si parla di due ristoranti concorrenti locati in una via di Milano. 
La particolarità? Uno è composto da proprietari e personale merdionali, l'altro da settentrionali. Insomma, tema non nuovo ma sicuramente inquadrato in un contesto originale, difficile da produrre tanto nel cinema che nella TV.  
Senza averlo visto manco per mezzo secondo temo di poter dire con discreta certezza che sia la solita sequela di sceneggiatura mediocre accompagnata da recitazioni non proprio d'accademia. Ma potrei sbagliarmi. Sono in procinto di dedicarvi un po' di spazio (quel tanto che basta per - probabilmente - condannarlo), se non altro per vedere come il campanilismo gastronomico italiano è stato messo in gioco questa volta.
E poi Tirabassi è un grande attore. Peccato per la sua carriera finora di gran lunga inferiore alle sue capacità.


martedì 23 dicembre 2014

Un genere che non vuole morire: Ron scelgo te!

Non ho mai condiviso l'idea standardizzata del gameplay come approccio fisico al joypad. Per meglio dire, considero il pad il primo vero impatto del videogioco, ma secondo me la definizione di gameplay andrebbe rivista in favore di una più corretta descrizione della "meccanica di gioco" o "azioni da compiere per proseguire". In virtù di questa idea, non ho mai approvato le affermazioni di chi ha sempre bollato le avventure grafiche "senza gameplay", alla stregua di gran parte dei jrpg e di molti film interattivi alla Heavy Rain o Beyond: Two Souls. Nelle avventure il gioco non è solo la trama come dicono in molti: c'è anche la storia, ma la base per andare avanti è risolvere enigmi, puzzle, interagire con l'ambiente circostante e perdersi al suo interno. Insomma, il gioco c'è eccome, come c'è nei videogiochi strategici (non in tempo reale) anch'essi vittime di questa discriminazione videoludica, ma loro sono un'altra storia.

Intesi sul fatto che un'avventura grafica non sia un prodotto senza gameplay come film interattivi e - soprattutto - i jrpg, c'è da fare i conti con una verità inoppugnabile detta dai detrattori del genere sulla quale invece mi sento di concordare pienamente: la limitatezza storica della formula.
Le avventure grafiche hanno prosperato in un'era di ancora relativa arretratezza del videogioco, in cui l'immaginazione e le prime interazioni virtuali davano l'impressione di vivere realmente in una realtà alternativa. Si sono concentrate su un singolo aspetto del videogioco, esprimendolo al massimo, ma esso veniva progressivamente fagocitato da generi più complessi, RPG di stampo occidentale  o avventure "lisce" che fossero. Il declino, superata quella era, è stato inevitabile.

Da qualche anno ci sono piccoli segnali di rinascita: nulla che possa portare il genere alla massa, ma se non altro a tenere vivo l'interesse di chi, come chi scrive, è un amante ancora oggi, pur non avvertendo più quel senso di immedesimazione e di libertà degli anni d'oro. Il DS con titoli come Hotel Dusk e Last Window ha dato una grossa mano, ma secondo me l'apice che quasi ha rinverdito i fasti dei primi anni '90 è stato il primo atto di Broken Age di Tim Schafer. Lì ho avuto davvero la sensazione di essere tornato ai tempi dei Monkey IslandDay of the Tentacle, l'autore ha calato l'asso e confezionato un'avventura bella tosta, immersiva, con degli enigmi molto progressivi (anche se un po' semplici).

Il prossimo in lista è Thimbleweed Park, avventura grafica di Ron Gilbert e Gary Winnick, che ripropone lo stesso impatto grafico del primo Maniac Mansion, quindi roba datata 1987, ben 27 anni fa. Il gioco, che ha raggiunto l'incredibile cifra di oltre 600.000 dollari di donazioni su Kickstarter, è previsto per il giugno 2006. 
Cifre così elevate per un titolo che, in tutta onestà, non ne richiederebbe neanche la metà, dimostrano l'interesse ancora vivo per le avventure grafiche. C'è vita anche su Marte.
E poi la moda di riproporre giochi nuovi con engine o librerie volutamente datate (nata con Mega Man 9) mi trova francamente favorevole, se stilisticamente accattivanti: la grafica è un concetto relativo da una buona decina d'anni per il sottoscritto, ovviamente è in grado di stupirmi ancora, ma l'approccio con cui la godo è cambiato considerevolmente.

Certo, occorre distinguere la scelta stilistica datata dalla grafica dozzinale spacciata per capolavoro di design (il caso più recente è Meme Run per Wii U, una di quelle robacce che, pure se fosse stata di gran qualità ludica, è impresentabile da qualunque lato la si guardi). Ma in questi casi direi che c'è da giore.

Lo stile retrò può aiutare ulteriormente il genere a risollevarsi: il bello delle avventure era (ed è tutt'oggi, quando si riesce a riproporlo) il senso d'immaginazione, svanito con il progredire della grafica e la scomparsa del pixel.
Senza contare i dialoghi, che con l'audio hanno perso moltissimo in termini di immedesimazione. Chi vi scrive non ha mai (e dico mai, tranne in qualche raro caso che adesso non ricordo in cui, forse, sia stato obbligatorio) ascoltato le voci quando sono state introdotte nelle avventure grafiche. Sempre e solo testo. Per continuare ad immaginare.








lunedì 22 dicembre 2014

Voci sovietiche dal passato

Chi tra i lettori è più pratico di storia sovietica, conoscerà senz’altro un nome che su tutti ha spiccato il volo dell’analisi scientifica del fenomeno comunista, quello di Andrea Graziosi. 

Riproponendoci di trattarlo in un futuro più o meno prossimo, consci di averlo nominato solo per un imprescindibile senso dell’onestà verso un autentico luminare del settore, questa volta traiamo la nostra ispirazione da una studiosa meno popolare ma sicuramente altrettanto interessante, la dottoressa Maria Zambalani, attualmente membro del collegio di slavistica dell’Università di Padova e professore associato all’Università di Bologna.
Il primo motivo è semplice: non parliamo di una storica, ma di una linguista. La Zambalani è infatti laureata in lingua e letteratura russa, una materia che non avrebbe mai fatto pensare ad un interesse diretto per la storia. Eppure, le sue pubblicazioni si interessano dei profili storici degli eventi, ma da una prospettiva letteraria.

Ne deriva la tendenza della ricercatrice a studiare nel dettaglio la censura russa, nella fattispecie sovietica, in virtù della lettura di molti autori che in gioventù aveva imparato a conoscere, apprezzare, rilevando le contraddizioni contestualmente dettate dalla politica di regime.
E’ problema antico quello di conciliare le esigenze artistiche con quelle di un regime totalitario: si è sostenuto più volte che il secondo non consenta di far sviluppare le prime, conducendo la sfera culturale in una sorta di atrofia senza uscita, possibile solo con l’estinzione del sistema repressivo.
In realtà, questa teoria non è così fondata, per lo meno non in tutti i casi: certamente la repressione non aiuta la spontanea manifestazione dell’essere che è propria di qualsiasi espressione artistico-culturale, ma non si può escludere a priori che tra gli artisti vi sia chi appoggia spontaneamente e pienamente la politica di regime. Né tanto meno che l’opera “orientata dall’alto” non possa trovare fonti di ispirazione spontanea. Sicuramente, le probabilità di una produzione artistica di prim’ordine diminuiscono. Nei regimi socialisti ciò era ancor più vero, poiché in questi casi i limiti pesantissimi della produzione facevano sì che la spada ideologica calasse la scure non solo sull’aspetto politico ma anche su quello economico, limitando ancora di più le possibilità espressive degli scrittori, laddove in un regime “fascista” (per generalizzare) in cui la proprietà e l’iniziativa private erano concepite, anche se limitate e discusse, la censura letteraria e giornalistica colpiva solo ed esclusivamente l’aspetto politico.

Il concetto è ben sottolineato dalla Zambalani nel suo La morte del romanzo. Dall’avanguardia al realismo socialista, dove ella s’interroga proprio delle problematiche appena enunciate, in particolare di quel realismo socialista ripreso nella forma che tutti conoscevano sin dal 1934, anno della sua formulazione ufficiale in URSS.  Mentore di tale impostazione, Andreij Zdhanov, che riteneva essenziale conciliare le proposte e le idee artistiche con la propaganda di regime, quell’abbinamento che in parole povere mette in dubbio la genuinità delle stesse. Il movimento avanguardista, che interessò la pittura, la letteratura e la scultura europee nel Novecento, fu pertanto frenato sul nascere prima in Russia, poi nel resto dell’impero sovietico, sostituito da una forma ibrida, basata sull’ispirazione “contestuale” al sistema socialista, ai suoi dettami, ai dogmi che non si potevano oltrepassare. Il tutto in un clima che spesso partiva da unità di intenti tra scrittori che sostenevano il regime e quest’ultimo.
Vladimir Majakovskij
L’esperienza di Vladimir Majakovskij è emblematica in tal senso: considerato da tutti il poeta della Rivoluzione, lo scrittore effettivamente appoggiò il regime fin dai primi giorni, ma il suo spirito libero, pur in un’ ottica ideologica assolutamente fedele alla linea, ben presto avrebbe infastidito la classe dirigente dell’amministrazione staliniana: le idee di Majakorvskij erano di favorire la discussione e la lettura nelle fabbriche, di approfondire la dialettica “proletaria”, concetti espressi molto bene nelle prime pagine del giornale da lui fondato, l’ Iskusstvo Kommuny . Un libertinaggio che un occhio lungimirante non poteva che guardare con sospetto.
Facciamo un salto temporale lungo oltre un trentennio, per approdare direttamente all’era di Breznev e all’evoluzione che aveva maturato la censura sovietica a quel tempo:  la Zambalani ha pubblicato di recente un saggio dal titolo Censura, istituzioni e politica letteraria in URSS, dove descrive con aspro cinismo la “novità” della censura socialista rispetto a quella di tutti gli altri sistemi basati sulla coercizione, in particolare rispetto alla precedente società zarista. Mentre durante la monarchia in Russia v’era essenzialmente repressione, nella nuova Unione Sovietica si sarebbe sviluppata un’altra caratteristica, quella della proposizione censoria, che sarebbe stata formulata ufficialmente con il Congresso degli Scrittori Sovietici del ’34, ma già praticata da oltre un decennio, con i primi manuali editi nel 1922. Nella fase Breznev, ma anche in precedenza con Krusciov, scrive la Zambalani, tutto si evolveva all’insegna della continuità. E, possibilmente, anche della prevenzione. Addirittura sostenitori occidentali dell’URSS come Jean Paul Sartre venivano stravolti in sede di traduzione, laddove le loro affermazioni lasciassero il minimo dubbio sull’efficacia del messaggio propagandistico.
Andrej Tarkovskij
A volte poi, il valore artistico dell’autore riusciva a superare per qualche istante le maglie strette della censura. Si ricordi l’esperienza del regista Andrej Tarkovskij, che negli anni ’70 partorisce due dei suoi capolavori più acclamati, Lo Specchio (1974) e Stalker (1979). Nonostante poteri che avrebbero permesso ben altri provvedimenti, l’amministrazione brezneviana si schierò violentemente contro la prima pellicola, non eliminandola però dalla circolazione, ma ostacolandone la promozione e la diffusione. Fu così che Lo Specchio venne proiettato in sale di second’ordine e per poco tempo, mentre all’estero gli venne preclusa la possibilità di concorrere per i premi più prestigiosi, come la Palma d’Oro a Cannes. Questo non impedì alla pellicola di riscuotere un successo notevole, tanto da divenire un cult già all’epoca.
Per concludere, ci pare utile allargare i nostri orizzonti oltre quelli dell’URSS, rivolgendoci all’attività che le censure svolsero in tutto il blocco, che inevitabilmente risentì nel dopoguerra delle linee programmatiche di Mosca affrontando le stesse difficoltà: tra i numerosi esempi, possiamo citare la Repubblica Popolare d’Albania, regime insediatosi dal 1945 al 1989 e guidato da Enver Hoxha fino al 1985. Hoxha  citava direttamente Zhdanov, rimarcando l’importanza della questione. Troviamo alcuni estratti delle sue dichiarazioni in un saggio di Leone Venticinque, Il Lavoratore della letteratura e delle arti: l’Albania di Enver Hoxha:

Il compagno Zhdanov dice “Il leninismo parte dal principio: la nostra letteratura non può essere apolitica, non può rappresentare in sé ‘l’arte per l’arte’, ma è stata chiamata per adempiere ad un ruolo d’avanguardia e importante nella vita sociale”.

e ancora, sostenendo la similitudine professionale tra un artista e un qualsiasi lavoratore di fabbrica, quasi come se il primosi muovesse  meccanicamente come il secondo:

Si dice che oggi in Unione Sovietica ci sono scrittori che si sono distolti da qualsiasi altro impiego per occuparsi della propria creazione letteraria, ma teniamo conto che, all’inizio, anch’essi hanno lavorato dove era necessario, alcuni in fabbrica, e nello stesso tempo scrivevano.

Pensieri che, indubbiamente, rimarcano ancora le dimensioni della censura di tipo sovietico. Un controllo stretto che per necessità strutturali non poteva che soffocare l’artista ad un limite estremo e ben superiore di quello osservato nei regimi assolutistici o di destra. Questo per la considerazione che facevamo in sede introduttiva. Una società di tipo sovietico era inevitabilmente stretta tra due necessità fondamentali: la prima, di garantire la stabilità assoluta del potere politico, la seconda di mantenere in piedi un sistema contrario agli istinti umani in tema di libera iniziativa. Le società tradizionaliste o quelle che ritenevano di rappresentare un “superamento del socialismo” come quella fascista, non risentivano del secondo problema, dovendosi concentrare principalmente sulla repressione degli oppositori squisitamente politici.
Quanto all’altro nodo, sulle possibilità espressive in tempo di regime, la storia ha ampiamente dimostrato che non esista in senso assoluto: abbiamo elencato voci di letterati come  Majakovskij che per loro fortuna appoggiavano pienamente l’ideologia ufficiale, oppure di registi che la contestavano velatamente come Tarkovskji, e in entrambi i casi abbiamo assistito all’emersione della loro espressività. Rivolgendoci ai regimi di destra, possiamo notare che nel ventennio fascista sono emerse figure sostenitrici come quella di Pirandello, e di aperta opposizione come quella di Benedetto Croce, senza che se ne discutesse il valore, anzi, addirittura rinunciando, da parte fascista, ad una repressione concreta come avveniva abitualmente per i “tradizionali” e meno altisonanti oppositori.

E il pensiero corre a Plombières...o alle proposte della Lega?

Negare l'evidenza tutti insieme, come dico sempre, è un modo efficace per costruire realtà inesistenti: così il progetto originale della Lega, le macroregioni, suscitò al tempo lo strappo delle vesti di indignati politicanti da due soldi, buoni a ricordarsi della Nazione solo quando è assolutamente necessario alle loro casse elettorali. Quel progetto era infatti quanto di più storico potesse esistere.
Oggi il PD propone qualcosa di simile, seppur in versione più moderata e non ancora ben chiarita dal punto di vista "federale": 12 regioni, tra cui l'eliminazione del Lazio ridotto a distretto allargato della capitale, accorpamenti di regioni minuscole come il Molise ad altre più grandi.
ilgiornale.it tuona:
Un maxi accorpamento che cambierebbe il volto del Belpaese senza tener conto delle tradizioni e della storia delle città che confluirebbero in un'altra Regione.
Una frase imprecisa, vera solo in parte (ad esempio storiche cittadine come Gaeta ritornerebbero alla loro "casa" di origine, il Triveneto, che accorperebbe Friuli, Veneto e Trentino, corrisponderebbe ad un accorpamento precedente alla Prima Guerra d'Indipendenza), dozzinale nell'espressione.

L'Italia è come la Germania: tutt'altro che il Paese così eterogeneo che pessimismo, vergogna e anche cultura antinazionale hanno dipinto negli ultimi 30 anni, dimenticandosi in un sol colpo Poetica siciliana, Dolce Stil Novo, Rinascimento, Umanesimo, la resistenza alla Riforma Protestante al di quà delle Alpi, oltre una miriade di tradizioni che, a dispetto di ovvie e nette (esistenti ovunque nel mondo) differenze popolane tra le varie aree, dipingono una cultura nazionale che dimostra, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che il Paese al quale gli italiani stessi credono di appartenere si era già sciolto all'inizio degli anni Novanta al termine di una guerra sanguinosa e si chiamava Jugoslavia. Sarà la vicinanza al mare Adriatico a confondere? Mistero. 
In ogni caso, come dico sempre, essere parte di una Nazione non vuol dire amarla, averne rispetto o esserne attaccati: e in questo concordo pienamente con gli antinazionali, con l'accorgimento dovuto di sottolineare che questa mancanza totale di orgoglio è propria anche di diversi secoli preunitari, e lo dimostrano le storie di tutti gli stati che frastagliavano la penisola a Nord come nello stesso Sud. 

Ma torniamo al titolo e a quel 1858 che, secondo i piani di Cavour e l'imperatore francese Napoleone III, doveva dipingere un'Italia divisa in tre macroregioni: un disegno che, in realtà, era condiviso anche da buona parte degli intellettuali italiani che vedevano nel principio federativo la strada maestra per l'Unità. Tra i massimi esponenti, Cesare Balbo, ma c'era anche chi proponeva l'idea di una federazione capeggiata dal Papa (cosa che in qualche maniera fu proposta da Pio IX nel 1848 con il progetto, poi naufragato, di Lega Doganale).
Poi, è il caso di dirlo, qualcosa andò storto, e invece di imitare un modello che sarebbe venuto solo dopo (quello tedesco) ci si è ritrovati nel caos di dover inseguire costantemente un ordine amministrativo assolutamente necessario.


Non so se il progetto di Roberto Morassut e Raffaele Ranucci, i deputati del PD che hanno parlato alla Conferenza delle Regioni dell'idea, possa avere delle basi federaliste. Ciò che è certo è che, sia in termini storici che logistico-economici, è sicuramente una versione sostenibile di quello che è sempre stato (con l'eccezione del periodo fascista) un centralissimo, pesantissimo e costosissimo gigante. Chi vede nel federalismo un ritorno indietro, semplicemente non rispetta la Storia d'Italia. E, soprattutto, non capisce quanto proprio il nostro tradizionale disordine abbia prodotto la via della semplificazione quando, come i "fratelli" tedeschi, la nostra strada non poteva che essere di tipo autonomistico.

Se il PD propone qualcosa del genere è benvenuto. A ben vedere lo è pure se le 12 regioni dovessero essere del tutto simili amministrativamente alle odierne: sarebbe comunque un netto passo avanti. Poi certo, parlare è facile: approvare, specie nel nostro irriformabile Paese dell'irriformabile Costituzione, è un altro paio di maniche. Il dato positivo è che, a destra come a sinistra, si sta diffondendo una cultura che mette in dubbio tanto il centralismo estremo e i prodotti della prima Repubblica quanto la stessa Costituzione. Cerchiamo di vederci del buono.


domenica 21 dicembre 2014

I limiti della Democrazia

Elitisti, chi erano costoro? Gaetano Mosca (in foto), Vilfredo Pareto e Roberto Michels, nomi famosi nella sociologia  contemporanea che mi sorprende siano meno noti nella cultura di massa rispetto a un Marx, ma anche a un Croce, a un Gentile e forse anche a un Hegel. Il motivo è semplice, l'attualità del loro pensiero. O l'assolutezza? 

I signori di cui sopra (oltre a rappresentare i pochi fari della sociologia italiana, mai emersa storicamente come altre grandi tradizioni europee, la tedesca su tutte) hanno elaborato un concetto di una verità davvero sconcertante nella sua semplicità: non esistono i regimi politici. O meglio, ne esiste solo uno, e si chiama oligarchia. Tutte le manfrine storiche e l'alternarsi di regime, per Mosca, Pareto e Michels, non sono altro che orpelli estetici che oscurano la verità indiscutibile del governo delle minoranze. Risposte possibili? Non saprei.

Credo sia difficile per chiunque pensare che, specialmente in tempi passati, ma anche moderni, un dittatore o monarca assoluto sia stato mai in grado di governare realmente da solo, senza l'ausilio di alcun aiuto esterno o di un gruppo dirigente qualificato. Il concetto fondamentale è che il potere, per quanto assoluto possa essere, si scontra con i limiti fisici dell'umanità: l'unico che nella storia si è avvicinato ad una reale solitudine del potere è stato Stalin, ma in un quadro di follia omicidiaria senza precedenti e fine che, ad un certo punto, coinvolgeva anche i suoi servitori più fedeli (Beria e pochissimi altri esclusi). Quindi un caso, oltre che eccezionale, estremamente fuori dai canoni. Gli altri? Tra i recenti, Hitler, Franco, ma anche un Mussolini, Honecker o un Kadar erano circondati dalle quelle persone influenti che, tradizionalmente, guidano la società. Il signor Mussolini fu addirittura dimissionato dal Re e dal voto contrario di un gruppo dirigente.

Anche nelle democrazie avvengono processi del tutto simili, a dispetto di una sovrastruttura unica componente a differenziarsi realmente : il ricambio è scelto sempre dall'alto e dove, guarda caso, non si fanno altro che votare i candidati proposti. E in tempi più remoti? Luigi XIV, l'emblema dell'assolutismo monarchico, era da sempre dotato di collaboratori che lo hanno aiutato nell'accentramento amministrativo della Francia, in certi ambiti non dandogli nessuna voce in capitolo, e qui si pensi al suo ministro dell'economia Jean Baptise Colbert.
Gli esempi potrebbero andare avanti all'infinito, non c'è una sola era storica che non abbia dato ragione agli elitisti, mi pare incredibile come vengano sottovalutati e ignorati dalle prime pagine culturali di quotidiani e programmi di approfondimento. A parere di chi scrive, il motivo risiede nel sostegno del regime in vigore, sia esso una democrazia, un autoritarismo o un' oligarchia.
La democrazia non esiste, visto che quella che noi viviamo è in realtà una specie di "oligarchia elettiva". Ciò detto, sin da quando siamo nati veniamo educati all'idea che sia l'unico bene, supremo e assoluto. Ora, per esser chiari, io non credo nella fattibilità del potere del popolo (oltre a non ritenerlo nemmeno corretto, per motivi che spiegherò in seguito), però riconosco tranquillamente la legittimità dei valori ai quali si aggrappa la democrazia, concettualmente ed eticamente.  
Nessuno stolto potrebbe dire che la libertà sia un male, tantomeno in termini assoluti, però nessun altro stolto potrebbe affermare che risolvere un problema collettivo a qualsiasi costo sia, parimenti, un male assoluto: la seconda affermazione oggi è molto frequente, purtroppo.
Il problema non sufficientemente sollevato è che i valori democratici non sono i migliori a prescindere, mentre un altro punto su cui siamo educati - senza dirlo esplicitamente - è che qualsiasi tragedia, anche un bimbo che muore di fame (esempio estremo) valga di meno del costituzionalismo moderno.

Sono due i grossi limiti fondamentali della religione democratica.
Il primo è l'equiparazione dei voti tra intelligenze e preparazioni molto diverse:  la maggioranza di queste preparazioni è, com'è facile immaginare, estremamente scadente. Ma almeno a questo si potrebbe porre rimedio, contravvenendo al "dogma" del suffragio universale e incondizionato (perchè di principio religioso a prescindere si tratta) sostituendolo con un suffraggio da ottenere con il passaggio di esami pubblici di cultura politica generale.
Il secondo limite della democrazia è la sbagliatissima idea che, in qualche modo, tutti debbano avere una vena politica o la tendenza a svolgere mansioni tali. E' un'altra delle componenti basiche del pensiero democratico: tutti votiamo, tutti partecipiamo in minima parte, e si presuppone che dovremmo farlo adeguatamente informati e preparati. Ma nessuno si ferma a pensare che fare politica sia un mestiere, anche di categoria, esattamente come il medico, il professore, l'ingegnere e via discorrendo: e non si può pretendere che tutti, anche in modo molto semplice e minimale, facciano i medici, i professori, gli ingegneri o anche i politici.
Poi certo, nessuno mette in dubbio che ci siano  popolazioni più inclini a farlo e quelle meno propense (e mi pare ovvio che il popolo italiano rientri tra le seconde) però c'è anche l'assoluto diritto delle persone a non interessarsi delle tecniche pratiche di politica, non c'è nulla di male e bisogna recepirne la realtà concreta.
Io stesso, che di politica sono un appassionato e uno studioso, non ritengo di avere le qualità professionali per eseguire voti spesso tecnici e improponibili (si pensi ai referendum), eppure il diritto di voto mi viene concesso. Figuriamoci a tutti quelli che non studiano nè si interessano neanche minimamente...e molti di questi siedono addirittura in parlamento.

Se parliamo di corruzione nello specifico,  le democrazie sono, poi, i regimi più corrotti del mondo: le superano i regimi filosovietici e comunisti caduti nel 1989-1991, popolari anche per essere stati i più inquinanti del mondo a livello ambientale. Ma in quei casi le caratteristiche di statalismo estremo  creavano una pressione verso le classi dirigenti, le uniche a potersi permettere "lussi normali" che noi consideriamo scontati, e dal basso c'era una spinta al clientelismo fortissima, sconosciuta anche alle democrazie. Come pressione mai vista verso l'inquinamento provocavano i piani quinquennali e la loro distruzione di suoli naturali e risorse.
L'Italia poi, inquadrata in questo contesto già di per sè difficile, si ritrova tra incudine e martello: sotto certi profili è un Paese estremamente sfortunato. La sua storia post-bellica ne è tristissima testimonianza, nella divisione tra chi sostenne i partiti filosovietici (che potrebbe essere detto al singolare, per la maggioranza del tempo successivo al 1954) e quelli filoamericani, e il particolare strutturalismo che contraddistinse i primi, che non ricevevano semplicemente soldi ma direttive, concrete possibilità d'infiltramento in strutture istituzionali, editori compiacenti e spesso direttamente al soldo, ecc. ecc. Una specie di "versione leggera" dei metodi con cui i partiti del patto di varsavia presero rapidamente il potere per poi non mollarlo più, ma in un paese NATO. Tutte componenti che hanno ulteriormente frastagliato il tradizionalismo politico italiano e che hanno fatto sì che i limiti del concetto democratico qui da noi siano stati ancora più approfonditi.

E non certo per la corruzione, almeno non finchè non esisterà una classifica scientifica che possa davvero quantificare il danno: quella attuale è una graduatoria barbina,  il problema sta nella "percezione", una componente che rende fin troppo ovvio il nostro posizionamento alla testa europeo. Se ci fosse un'Unione del Mondo credo che a quel punto arriveremmo alla testa pure di quella, non credo esista un solo popolo al mondo più abile di noi nello smerigliare i propri fatti privati.

Combattere la corruzione è un dovere assoluto dello Stato: rendersi conto che siamo i peggiori giudici di noi stessi una verità storica.

domenica 14 dicembre 2014

Roma, una mattina come tante, e le delicate questioni nazionali di un tempo

Si parla, senza troppi giri di parole, del convegno organizzato dall'Università di Roma Tre sul tema Gli italiani dell'Austra-Ungheria e la Grande Guerra. E' chiamato da molti il Giubileo del primo conflitto mondiale, questo 2014 centenario da quei drammatici - ma non solo - eventi.

Chi studia la storia a certi livelli riconoscerà senz'altro l'importanza della tematica, tanto per cambiare svilita sul fronte mediatico dai più beceri qualunquismi (con qualche eccezione di rilievo come Rai Storia), le solite ramanzine etiche che di etico non hanno proprio nulla (se non sputare sul sacrificio di centinaia di migliaia di italiani, di cui la maggioranza costretta da autorità ed eventi come in qualunque tessuto sociale umano), ma, ciò che è peggio, la sottovalutazione di un fatto, quale la Prima Guerra Mondiale, che è fondamento di ciò che siamo adesso e rappresenta una tappa fondamentale della nostra esistenza, come di quella di tanti altri popoli stabilitisi definitvamente dopo la fine delle ostilità (e come, in generale, i conflitti bellici spesso hanno rappresentato per la storia di quasi tutti i popoli del mondo).
Il punto di vista è senz'altro particolare, visto che la base delle rivendicazioni italiane al 1914 era costituita da quelle terre irredente che ancora mancavano per il completamento dell'Unità, ( "come minimo il Trentino, la Venezia Giulia e l'Istria", diceva Sonnino) e interessarsi delle opinioni, dei sentori e delle posizioni degli italiani d'Austria è cosa non sempre approfondita.

La giornata d'apertura si è snodata in due sessioni, mattutina e pomeridiana: ci concentreremo su queste. Durante la mattina si è svolto un raffronto tra i punti di vista italiano e austriaco, unitamente ad una descrizione generale del problema storico. Nel pomeriggio si è parlato degli atteggiamenti ambivalenti degli italiani d'Austria.
Senza elencare tutti i numerosi studiosi che hanno partecipato all'evento (tra i quali Marino Zorzi e Lucio Toth della Società Dalmata di Storia Patria), arriviamo al primo nocciolo della questione, ossia la complessità di valori, idee e sentimenti che avevano gli italiani d'Austria. Un punto di vista innovativo, visto che la storiografia degli ultimi trent'anni ha teso soprattutto a sottolineare una certa ostilità di fondo degli italiani "imperiali" contro le ipotesi di riavvicinamento alla patria naturale. Artefici di questo orientamento sono stati vari studiosi, tra i quali spicca sicuramente il nome di Alberto Maria Banti, storico autorevole del Risorgimento italiano interessatosi anche di irredentismo. In realtà si comprende bene come - semplicemente - gli italiani d'Austria vivessero in condizioni del tutto rispettabili e aliene da qualsiasi tipo di persecuzione minoritaria, dal momento che l'Impero era notoriamente rispettoso delle identità nazionali che lo componevano. La questione è spinosa e di difficile traduzione immediata.

La parte più debole della conferenza, a modesto avviso di chi scrive, sta nella tentazione di ricadere in certe generalizzazioni, ancora retaggio dell'influenza monicelliana nella società italiana. In tal senso l'intervento meno interessante è stato quello del professor Antonio Trampus dell'Univerisità di Venezia, che nella sua relazione definisce le figure eroiche della vittoria italiana (ossia i soldati che si sacrificarono per il Paese, alcuni anche appartenenti all'esercito austriaco e giustiziati per tradimento, come Nazario Sauro) come "a tutti gli effetti mitologiche". Figure "spesso, anzi nella maggioranza dei casi, che non corrispondevano alle virtù delle persone comuni". Un'affermazione di una banalità sconcertante, ovviamente proferita con la solita supposizione che simili discorsi di eroismo o vigliaccheria debbano valere soltanto per il contesto italiano. Non serve la storia, ma la logica banale per comprendere che in un esercito di 100 persone, nella migliore e più miracolata delle ipotesi se ne troveranno una ventina disposte a morire senza paura per un qualsivoglia Paese. Il motivo dell'approfondimento di Trampus su questo elemento resta perciò un mistero.
Più interessante la digressione sulla complessità del conflitto, considerato erroneamente da molti come un passaggio definitivo per la concretazione delle aspirazioni nazionali di vari popoli, mentre in realtà è stato anche molto altro: pare abbastanza logico, da un punto di vista italiano, interessarsi della caratteristica più popolare, visto che ci ha riguardato direttamente, ma indubbiamente il richiamo all'approfondimento ha un senso che va difeso e sostenuto. In ogni caso la critica dovrebbe anche tenere conto della diffusione di testi scolastici come quello, piuttosto popolare, di Giovanni Sabatucci e Vittorio Vidotto che, in tutta onestà, ben approfondiscono le innumerevoli novità e le concause che si concentrarono in quel gigantesco fenomeno della prima guerra mondiale.
Appropriata la valutazione negativa dell'influenza di studiosi come Eric Hobsbawm su questa tendenza: la periodizzazione e la specificazione degli eventi in senso tendenzialmente univoco si è infatti accresciuta parecchio dalla pubblicazione de Il secolo breve in poi. 

Arriviamo ai tre interventi più incisivi della giornata: Luca Riccardi (Università di Cassino), Andreas Gottsmann (Istituto storico austriaco di Roma), Egidio Ivetic (Università di Padova). 
I punti di discussione: la Grande Guerra dal punto di vista italiano, dal punto di vista austriaco, e un appunto critico sugli italiani di Dalmazia.

Riccardi ci consegna una valutazione obiettiva e coerente delle dimensioni politiche dell'Italia del tempo, sottolineando in modo eccessivo i punti deboli (il che non è una novità, purtroppo, nella storiografia italiana) ma ricordandosi, per fortuna, dell'importanza di quelli forti. Su tutti una vera apologia del Ministro degli Esteri dell'epoca (per la precisione dal marzo 1910 alla morte avvenuta il 16 ottobre del '14), Antonino Paternò Marchese di San Giuliano, definito addirittura il migliore della storia italiana (forse non a torto), con la sua capacità di preparare gli accordi con l'Intesa di fronte all'ennesimo rifiuto austriaco di consegnare Trentino, Venezia Giulia ed Istria in cambio di una neutralità nella nascente guerra o addirittura di una discesa in campo dell'Italia al fianco degli Imperi centrali. Il concetto di per sè non è così banale, sono pochi gli anni da cui si rivaluta parecchio la figura di San Giuliano: fino a qualche decennio orsono, il vero artefice del Patto di Londra è sempre stato considerato Sidney Sonnino (successore del siciliano al ministero) il che è parzialmente vero per la gestione dei rapporti con le potenze dell'Intesa nei mesi successivi, ma troppo superficiale in quando dimentica dell'apporto fondamentale dato dal Marchese.
Il messaggio migliore trasmesso dall'analisi di Riccardi è quello finale: il riconoscimento di un fatto che, ad oggi, tutti faticano a sottolineare, distratti dai numeri negativi della storia italiana e dalle sue sciagurate tendenze in questo ambito: il fatto che l'Italia, in quel periodo e sebbene a fatica, si sia comunque trovata indiscutibilmente tra le prime 5 potenze mondiali, e che questo status sarebbe rimasto fino al disastro della Seconda Guerra Mondiale. Un punto ribadito anche da altri studiosi presenti alla Conferenza: si provi a pensare cosa succederebbe se questi signori occupassero poltrone di programmi "culturali" televisivi.

Giusto qualche accenno al monologo del professor Gottsmann, il cui merito maggiore è da ricercarsi nell'equilibrio: nessuno scomponimento, massimo distacco ed enunciazione dei fatti. Non c'era antipatia verso l'Italia in Austria: il quadro era complesso e composto di vari sentimenti, dalla massima stima per quelli che venivano visti come operai onesti o lavoratori del mercato ortofrutticolo (coloro che abitavano nell'Impero al tempo) ad un certo pregiudizio verso i commercianti di frontiera, ritenuti furbi e all'opposto imbroglioni. Odio generale scatenato dalla propaganda, invece, dopo l'abbandono dell'Italia della Triplice.

Eccellente l'intervento del professor Ivetic, di origine dalmata (Pola), che fotografa con notevole realismo la questione della Dalmazia nello scacchiere internazionale e i suoi riflessi sul Patto di Londra. Che la questione irredentista nel litorale adriatico orientale non si potesse porre è una cosa ormai arcinota: sono questi i primi squilli del discorso. Nel 1910 c'erano 30.000 italiani nell'area, circa il 3% della popolazione totale, concentrati per lo più nelle grandi città costiere e poco presenti nell'entroterra abitato totalmente da slavi.
Numeri che parlano chiarissimo, l'Italia avanzava pretese senza che ci fosse alcuna ragione sociale per muoverle. Una certa storiografia in voga negli ultimi decenni tende a criticare la scelta del nostro Paese di spingere per la conquista, allineandosi alle tesi estere, che riconoscono la legittimità di tutte le altre "mire" italiane (Trentino e Venezia Giulia su tutte).  Ma è qui che il discorso di Ivetic diviene interessante. I decenni successivi ( passando per il secondo conflitto mondiale fino al secondo dopoguerra ) mostrano inequivocabilmente la ragione italiana sulla questione dalmata, per vari motivi. Tra i meno importanti c'è la questione storica: Zara, Pola, Ragusa, sono tutte città storicamente italiane e dovevano "tornare" italiane. Ma la vera preoccupazione di Sonnino riguardava le tensioni di confine con gli slavi. I fatti gli hanno dato pienamente ragione, la necessità di costruire lo "scudo" adriatico era veramente importante, come dimostrano i disastri avvenuti dalla primavera del 1945 a tutto l'anno successivo, quando i partigiani di Tito fecero man bassa di italiani di frontiera e, nella migliore delle ipotesi, li cacciarono da casa. Sonnino previde meglio di tanti altri la futura esplosione di una situazione precaria, comprese la rottura di un assetto balcanico che la futura Jugoslavia avrebbe contribuito solo a rimandare.

Molti altri gli argomenti affrontati e le fonti citate: poco, decisamente, lo spazio per quella che è solo una sintesi.
Tirando le somme? Un convegno che dimostra, semmai ce ne fosse ancora bisogno, la distanza siderale tra la cultura di massa e quella accademica, ma soprattutto tra la storia mediatica e quella reale (o con il proposito di esserlo con metodo scientifico). Quella mediatica è un cancro, accresciutosi dopo le prime analisi fredde sul Fascismo di una ventina di anni fa (ma risalenti la prima volta a Renzo De Felice), che hanno portato una sorprendente diffusione negativista dell'appellativo "revisionista". In modo talmente cancerogeno che oggi chi non sa nulla di storia (ma spesso è pure convinto di esserne depositario) grida al revisionismo come a un crimine contro l'umanità, ed è puro fiato sprecato spiegargli che lo storico faccia quello di mestiere, ossia revisionare, cercare, approfondire. 
Quanto all'accademia, va detto che anche le correnti più obiettive di questo pianeta non possono sfuggire sempre e comunque alle tendenze olistiche della società odierna, in particolare italiana (e qui si sottolinea di nuovo l'intervento del professor Trampus), ma in ogni caso il maggiore distacco riesce nell'intento di trasmettere una versione più obiettiva dei fatti, come da tradizione.

Chiudo con una considerazione d'epoca: oggi l'Italia è un Paese completamente allo sbando, senza nessun sentimento nazionale ed, anzi, una palese vergogna dello stesso. Sono i risultati di 70 anni di Repubblica altamente diseducativi, dove si è confusa l'importanza del collante nazionale (una cosa fondamentale in qualsiasi contesto sociale, che non nasce dal nulla ma attraverso un'esempio quotidiano prima indiscutibile, oggi inesistente) con la critica del Fascismo che, ad un cervello libero, si può concedere senza alcun problema.
Eventi come la Prima Guerra Mondiale si distaccano decisamente dall' equivoco del Risorgimento ottocentesco (movimento culturale che non ha la mia minima approvazione, nonostante sia uno dei pochi in questo paese a sentirsi orgogliosamente italiano) e dimostrano l'esistenza di uomini, come i citati San Giuliano e Sonnino, che oggi possiamo solo sognare.
Tutto questo senza nemmeno nominare gli anni della stagione patriottica per eccellenza: non ce n'è bisogno, basta la - pur criticabilissima - Italia liberale.

La Costituzione del 1948 ha fallito anche in questo, oltre che sotto il profilo governativo: dovrebbe far riflettere in molti, ma essere sordi negli ultimi decenni è diventata una qualità genetica dell'italiano medio.

Il funghetto masterpiece?

Una prima recensione di Toad, tra le tante. Dal primo video ho visto che c'era qualcosa di diverso rispetto al limitatissimo e noiosissimo contenuto di 3d World.
Da qualche mese dico che potrebbe vivere una storia simile a quela di Four Swords: il suddetto titolo, infatti, uscì per la prima volta come contenuto speciale della versione GBA di A Link To The Past: roba scarna, fatta su due piedi, carina l'idea.  Diventa un gioco intero, multiplayer 4 giocatori per Gamecube e cosa ne esce? Un capolavoro senza tempo, forse uno dei migliori giochi in assoluto della storia di Nintendo. Il fungo sembra seguire un iter simile e le recensioni sembrano confermare: magari non sarà Four Swords (un picco difficilmente raggiungibile per molti) ma è dal secondo video di gameplay rilasciato che ho deciso due sole parole: lo-voglio.
La varietà che traspare dai contenuti rilasciati è veramente notevole, sembra un esercizio di stile continuo, laddove su 3d World era tutto limitatissimo e si facevano grosso modo sempre le stesse cose. 

Sono lontano da Nintendo sia dal fenomenale 3DS (che venga benedetto sempre) che dal Wii U perchè non nego di essere completamente travolto da Steam e dalla marea di giochi che sto provando e finendo a 2 spicci, alcuni capolavori assoluti. 

Ma quando tornerò la lista sarà bella grassa: da questo, a Donkey, a Kirby, al nuovo Yoshi, probabilmente pure a Splatoon, con un'Epona che guarda da lontano. Sarà meraviglioso, come lo è sempre stato. E questo Toad mi sta seriamente tentando di anticipare il ritorno. 



venerdì 12 dicembre 2014

Il direttorio e i paradossi dell'ignoranza

Il Movimento 5 Stelle è in via d'estinzione. Non è una novità, se lo aspettavano un po' tutti, l'impressione era condivisa già dopo l'exploit. Nessuno realisticamente credeva che avrebbero mai raggiunto percentuali così elevate. 
La nomina di Grillo dei "5 saggi" come suoi successori dimostra il naturale defilarsi di un personaggio che, quando ha iniziato, non aveva la minima idea di cosa lo aspettava, nel coacervo di approssimazione e superficialità con cui ha affrontato la sua esperienza politica.
Perchè non ululo dalla gioia? Semplicemente perchè penso che, in un modo o nell'altro, l'ignoranza delle pecore grilloidi possa essere stato in questi due anni uno stimolo per il disastrato Stato centrale e la sua politica delle banane, non solo per il dramma del malaffare, ma anche e soprattutto per la stasi legislativa e lo storico - e mai risolto - problema della stabilità degli esecutivi.

Lo stesso Renzi, un poveraccio che compatisco per quanto - probabilmente - non caverà manco mezzo ragno dal buco, è indirettamente un "prodotto" dei grillini. Esseri che al governo possono finire di distruggere l'Italia, ma de-responsabilizzati hanno dimostrato finora una funzione di pungolo sociologico per stimolare la politica a svegliarsi. 

Per farla breve, non sono così convinto che le riforme avviate sul Senato, sulle Province (tutte ancora da confermare, ma occhio: nel sistema italiano è fisiologicamente impossibile che lo siano, quindi più di questo non si poteva fare, basta ricordare il 2005) e un autentico miracolo come il pagamento di gran parte dei debiti delle PA sarebbero anche solo in discussione oggi, senza i grillini. I tagli di irap e irpef, pure nella loro vacillante strutturalità, non ne parliamo.
E la cosa più comica di tutta questa faccenda è che loro - i grillini - si oppongono a tutto indiscriminatamente: sono talmente stolti da non rendersi conto di aver favorito questo minuscolo, iniziale imput di vitalità governativa. 
Un imput che non condivido neanche in tutte le sue forme, ma il punto è un altro: dove andrà Renzi, il cui potere è soprattutto psicologico, dopo l'estinzione dei grillini? La perfida Costituzione tornerà a dominare e a tirare fuori le sue squame, facendolo cadere al primo emendamento? 

Intanto sono ancora in legislatura, per condannarli ci vogliono le elezioni: e io dico che Renzi sta facendo di tutto per arrivare al 2018 anche per questo motivo: quei 200 ignoranti gli servono come il pane.

giovedì 4 dicembre 2014

Quattro Dicembre Millenovecentonovantaquattro

Il giorno del miracolo. Giocavo alla scuola calcio Vesuvio, campionato provinciale giovanissimi. 13 anni, ero mezz'ala sinistra. 
Quella partita fui impiegato, con infruttuosissimi risultati, difensore centrale, subentrato nella ripresa: la gara era contro una scuola calcio di Procida: fu la prima volta che andai su quell'isola, un peccato vederla in pieno inverno, sotto un acquazzone poderoso quale ci fu quella domenica.

Il protagonista di questa storia però non sono io. Ero un buonissimo calciatore (anche se recenti partite organizzate dopo secoli hanno mostrato una versione di me estremamente scarsa), potenzialmente anche fortino ma terribilmente fragile psicologicamente, talvolta ottimi numeri e continuità, ma quando mi prendeva la tremarella crollava tutto, sbagliavo anche i passaggi da due metri: non si potrebbe mai parlare di me.
Si parla di una partita che seguii con trepidazione in panchina, via radio. All'epoca andavo al San Paolo a vedere la Juve nelle gare esterne contro il Napoli, non c'erano altre vie: Tele + era ancora una realtà emergente e per di più trasmetteva solo una partita a settimana. 

La radio ancora primeggiava, e via radio seguivo con trepidazione la partita in casa contro la Fiorentina. Dopo mezz'ora si era già sotto di due gol, sembrava finita. Il Vesuvio invece vinceva 3 a 0 e la partita era in discesa. 
Entrai, tesissimo per il ruolo totalmente estraneo alle mie caratteristiche ma anche per la Juve, una squadra che per ironia della sorte non avevo mai visto vincere il campionato da quando ne ero diventato tifoso, e che in quell'anno - dopo qualche mese - iniziava a mostrare di poter tornare quella di un tempo.

Ma quel giorno si perdeva. La mia prestazione fu pessima, ma il Vesuvio vinse ugualmente. Si torna negli spogliatoi, non so nulla, do per certa la sconfitta della Juventus. Un compagno di squadra rimasto in panca mi dice sorridendo "Stelio, la Juve ha vinto 3 a 2". Non riuscivo a crederci, mi sembrava impossibile: pensai a uno scherzo, a quell'età ne nascevano per ogni scemenza, e l'antijuventinità di cui si sostanziava l'ambiente napoletano spesso lasciava pensare a qualcosa del genere.

Per tutto il tragitto verso l'aliscafo che doveva riportarci a Napoli, continuai a tempestare: "Ma è vero? Dai non dire cazzate, mi stai prendendo in giro". TV dell'aliscafo, parte 90 minuto. 

Segnale disturbato come sempre, ma si dipana davanti agli occhi la straordinaria impresa, la doppietta di Vialli (uno dei più grandi attaccanti della storia, probabilmente il Van Basten italiano insieme a Riva) e nel finale quella gemma, quel tocco vellutato di esterno al volo, probabilmente anche fortunoso ma sicuramente cercato: è la quarta grossa perla dell'emergente Alessandro Del Piero di quell'anno. Quelle di Napoli e Roma contro la Lazio per me non sono mai valse allo stesso modo. Un gol incredibile che ricordo come se fosse ieri, anche perchè l'ho riguardato miliardi di volte. 

La rete che, forse, simboleggia meglio di qualunque altra il ritorno della Juve alla vittoria dopo 9 anni di delusioni: quegli anni in cui io, calciatore forse buono ma troppo debole mentalmente, iniziavo a prendere confidenza con il pallone. Al termine di quello sciagurato scarso decennio, qualcun altro scriveva la storia.



mercoledì 3 dicembre 2014

Quelle eccezioni di valore sociale e collettivo

Le visioni più catastrofiche che si abbattono sull'Italia - ad opera degli italiani per primi - sono inerenti la sua storia spesso politicamente misera, la sua totale mancanza di tradizione in campo internazionale, la sua sostanziale inefficacia come Nazione militare. Discorsi abbastanza difficili da contestare, visto che, dati alla mano, l'Italia ha mostrato, per gran parte della sua esistenza, sia pre che post-unitaria, tendenze piuttosto negative al di fuori dei campi culturali, artistici, e soprattutto letterari.
L'errore di un'impostazione del genere, però, è piuttosto evidente: innanzitutto non glorifica abbastanza i punti di forza della storia del Paese, quel pezzo di storia artistica che vale tutto l'orgoglio di sentirsi italiani, in un luogo che, da solo, possiede il 50% delle opere d'arte mondiali. In secondo luogo, negli ambiti prima citati, non valorizza un elemento fondamentale per la crescita di qualsiasi comunità e società: le eccezioni.

Una considerazione non da poco: nonostante una tendenza plurisecolare di sottomissioni, prima e dopo l'unità, sarebbe il caso di diffondere e propagandare le suddette, di cui perfino l'Italia è stata testimone, in termini politici ma incredibilmente, e per un breve periodo, perfino in ambito militare.

Parlando del primo motivo di autoflagellazione sintetizzato dalla frase volgare che ogni buon italiano impara dalla culla, ossia "noi non contiamo un cazzo", bisognerebbe rafforzare, enfatizzare e studiare di più i periodi che l'hanno smentita, perchè, pur minoritari, sono esistiti eccome.  
Dal 1910 al 1943 l'Italia è stata effettivamente una potenza politica, che apriva inchieste internazionali ed otteneva, in certi casi, anche risarcimenti dovuti. Di esempi se ne possono fare, di sicuro c'è da citare la famosa crisi di Corfù. 
L'inutile Italia infatti allora era un po' meno inutile e, uscita vincitrice dal primo conflitto mondiale, aveva perfino il potere, datogli dalla comunità internazionale, di stabilire alcuni confini, come erano, nella fattispecie, quelli da fissare tra Grecia e Albania. Capitò che la delegazione italiana incaricata, guidata dal generale Enrico Tellini, venisse assassinata durante i sopralluoghi da un team di estremisti greci. Mussolini chiese e ottenne nel 1923, dopo un'occupazione forzata dell'isola di Corfù, la ragione e il risarcimento di 50 milioni richiesto alla Grecia, nonostante l'opposizione della Gran Bretagna. 
La stessa un po' meno inutile Italia decideva, praticamente da sola, il rinvio di un anno del sanguinoso secondo conflitto mondiale grazie alla Conferenza di Monaco del 1938: un elemento, questo, unanimente definito perfino dagli storici, come dimostrazione di grande forza politica da parte del nostro Paese. Ci sarebbero altri esempi, dal trattato di non ingerenza con la stessa Gran Bretagna che aveva permesso la nostra unità politica, al famoso Anschluss, quel l'annessione dell'Austria alla Germania per la quale si chiedeva addirittura parere vincolante all'Italia (anche se in quel caso ci fu un po' di sordità, se così si può dire: ma qualcuno ha mai messo in discussione nel 1990 la potenza americana anche se Saddam Hussein si permise di invadere il Kuwait contravvenendo alle raccomandazioni di Washington? Non credo. Sono cose che capitano a tutti). Fermiamoci e passiamo oltre.

La seconda autoflagellazione riguarda l'incapacità storica per il Paese di affrontare i conflitti armati. Ebbene, perfino noi un conflitto, uno, l'abbiamo vinto sul serio: la prima guerra mondiale. Certo, la nostra tradizione militare è alquanto deprimente, a fronte di almeno 5 conflitti superati in modo ridicolo, contro avversari inesistenti e grazie agli interventi stranieri (tutte e tre le guerre d'indipendenza e le due in Libia e in Etiopia). 
Ma il primo conflitto mondiale fu un'eccezione - numeri e dati alla mano - anche se non viene detto da nessuno e si segue la cultura autoflaggelatoria molto accresciutasi, soprattutto dai tempi del capolavoro La Grande Guerra di Mario Monicelli.  Una valutazione che non ha senso di esistere, visto che la vittoria contro gli austroungarici non ebbe nulla a che fare con le fortunose campagne prima citate, e non è necessario neanche svolgere chissà quali ricerche per confermarlo, bastano i dati - trovabili ovunque - sul profilo quantitativo dei due eserciti per evidenziare non solo l'inferiorità numerica complessiva dell'esercito italiano, ma anche l'inconsistenza dell'aiuto straniero in termini di uomini (3 divisioni britanniche e 2 francesi contro le oltre 50 italiane).
Storiograficamente questo dato è completamente ignorato dagli studiosi, che enfatizzano - in piena ragione, sia chiaro - la scadente storia militare italiana. Però almeno i professori nostrani potrebbero sottolineare come militarmente  Paesi come la Francia abbiano fatto molto peggio nel XX secolo, vincendo due guerre SOLO grazie agli alleati e a circostanze fortuite (come l'esaurimento delle risorse tedesche nella prima guerra mondiale, che portò Berlino alla paradossale resa pur avendo vinto praticamente tutte le battaglie) e venendo cacciata a pedate dall'Indocina.
La vittoria del primo conflitto nostro viene fatta passare erroneamente come una delle guerre vinte "all'italiana" quando non è così.

Potremmo aggiungere anche il boom economico del dopoguerra: l'Italia è diventata la quinta potenza economica del mondo (sebbene in caduta libera come stato sovrano e nazionale) in meno di quarant'anni.

Le eccezioni vanno sempre rivalutate, comunicate, studiate. E' la strada migliore per produrre nuove eccezioni che, insieme alle precedenti, formano una cosa che si chiama regola. Abbattersi per l'andamento tendenziale di certi fenomeni non è nè costruttivo nè utile, e produce negli stranieri atteggiamenti ben giustificati di "sciacallaggio politico" se mi si può passare l'espressione.