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venerdì 19 settembre 2014

In buona sostanza, sì. L'URSS è sopravvissuta al 1984

Andreij Amalrik non è stato un semplice scrittore: l’ autore del famoso saggio Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?, che ho avuto il piacere di leggere, evidenzia tratti di lucidità analitica poco comuni nel mondo letterario, tra le sue righe si scorgono gli intenti di un critico, difficilmente identificabile come un oppositore al regime comunista o quale sostenitore dell’introduzione del libero mercato. Il motivo è presto detto: Amalrik, nato nel 1938, apparteneva a quella generazione cresciuta in toto nel contesto dell’educazione sovietica e delle propagande di regime, per non parlare della totale chiusura verso l’esterno, fattore che influenzò sicuramente coloro che vivevano all’interno del sistema. Come sottolinea molto bene Carlo Bo nella prefazione, Amalrik analizza semplicemente ciò che è sotto il proprio naso, non esprime neanche dei veri e propri giudizi, a ben vedere: descrittivo, parla dei motivi per i quali il socialismo sovietico in cui è cresciuto sarà destinato, a suo giudizio, a morire. Non propone modelli alternativi, (non ne può concepire, se non di anacronistici) non si lancia in una campagna anti-sovietica tanto facile quanto sterile.
Quando lessi questo testo, bramavo di curiosità, per una serie di ragioni.
Sicuramente il titolo ha il suo richiamo, da solo è sufficiente a catturare l’attenzione di qualsiasi lettore, anche non strettamente interessato alla storia, ma ci sono altri fattori. Per dirne una, ero davvero curioso di vedere come in un testo di appena 110 pagine si potessero mettere a fuoco tutti i motivi che avrebbero condotto, dal 1969 (periodo della stesura) ai quindici anni successivi, un vero e proprio gigante come l’URSS a crollare miseramente, in un’ epoca in cui nessun osservatore occidentale lo avrebbe pensato minimamente.
Amalrik, incredibilmente, ci riesce: erra, com’è ovvio, sull’anno del crollo del gigante socialista, ma non gliene si può fare un torto.
L’impero sovietico sopravviverà sì al 1984, ma basteranno appena sette anni affinchè la visione di Amalrik si concretizzi quasi appieno. Il quasi, grande come una casa, è qui presente perché nel corso del testo, l’autore si focalizza su un pronostico quasi ossessivo, un evento a suo giudizio inevitabile, che avrebbe dovuto generare tutto ciò che poi in realtà furono le riforme di Gorbaciòv a causare in maniera ben più tuonante: una supposta guerra con la Cina, il cui scoppio non avrebbe potuto protrarsi oltre una decina d’anni.
A prescindere dal fatto che tale evento non si sia verificato, è interessante leggere i motivi che Amalrik adduce per giustificare una tale conclusione. Preparando il terreno per un conflitto, egli in realtà sottolinea meglio di chiunque altro i motivi che avrebbero spinto Pechino al conflitto con Mosca. Tracciando un quadro superficiale della situazione internazionale di allora, le due principali potenze facevano capo, come tutti sanno, a Washington e alla capitale russa. La Cina, pur temibile, era considerata un gradino al di sotto, soprattutto nel campo militare, dove la produzione di armamenti non raggiungeva minimamente le vette dell’Unione Sovietica, e di conseguenza poteva tutto meno che scontrarsi con lo strapotere americano.
Qualche osservatore poco attento dell’epoca, avrebbe sostenuto che l’ostilità che Mao, gradualmente ma inesorabilmente, dimostrò all’URSS dal 1949 in poi, fosse frutto di una questione puramente ideologica, quella del “revisionismo sovietico” traditore dell’ortodossia marxista, oltre che dal “semplice” desiderio di conquistare il predominio nel campo socialista. Amalrik smentisce con molta schiettezza questa leggenda metropolitana (ma potremmo quasi definirla "leggenda dialettica"): Pechino desiderava semplicemente un salto di qualità del proprio status internazionale, era logico che questo non potesse avvenire ai danni degli Stati Uniti, in primis per la posizione geografica (troppo distante dagli USA per poter pensare di sconfiggerli con le proprie forze) e in secondo luogo per il naturale interesse che i cinesi avrebbero nutrito per le immense distese orientali dell’ ex-impero russo, in quanto foriere di espansione territoriale nonché di insediamento demografico per un paese che, già allora, contava 800 milioni di individui. Pertanto, mascherando i reali obiettivi in nome dell’internazionalismo socialista, Mao propose a Stalin di unificare i due stati, al fine di ottenere una supremazia che, alla luce della nettissima maggioranza dei cinesi, sarebbe stata scontata, come scontata fu la risposta negativa del leader sovietico. E’ notevole l’acume dell’autore in questo frangente: il ragionamento non fa una grinza, così come tutte le considerazioni politiche pienamente in linea con quella che era la situazione internazionale alla fine degli anni ’60. Perché, quindi, la previsione di Amalrik non si verifica?
Fondamentalmente, egli non mette in conto (né avrebbe potuto farlo, ovviamente) due eventi che si riveleranno decisivi per smentirlo. Il primo è costituito dalla morte di Mao: non potendo intuire gli osservatori esterni quanto il regime cinese costituisse una struttura a sé stante e quanto essa invece dipendesse dalla personalità del proprio capo, non si sarebbero potuti fare una ragionevole opinione della politica che avrebbero attuato i successori di Tse Tung. Il regime cinese avrebbe dimostrato di poter costituire una struttura solida, ma fortemente indebolita ideologicamente dalla scomparsa del suo capo, nel 1976. Il che ci conduce direttamente al secondo evento, ancora più imprevedibile del primo: l’inizio di una liberalizzazione economica della Cina (pur graduale e molto lenta, almeno da principio). E’ chiaro che un’operazione del genere allontanò progressivamente il regime di Pechino da una diretta competizione militare con l’URSS, concentrandosi anzitutto su un progetto di sviluppo economico e consolidamento interno che sarebbe proseguito con ancor maggiore decisione nei decenni successivi, fino ai giorni nostri. Un terzo e opzionale fattore potrebbe trovarsi nell’invasione sovietica in Afghanistan, sul quale si concentrarono le immense risorse militari disposte dal Cremlino. Mi pare però, francamente, meno influente rispetto ai primi due, per un semplice motivo: sebbene Amalrik affermi che sarebbe stata la Cina a provocare e l’URSS ad offendere, è plausibile che quest’ultima, ove si fosse concretata una possibilità di scontro, avrebbe volentieri sacrificato l’acquisizione politica in Asia centrale per dare la priorità assoluta alla difesa della supremazia nord-orientale, a lungo contrastata dai cinesi.
Un errore di fondo invece è costituito dalle conclusioni eccessivamente differenziate che egli trae dall’analisi del dissenso interno. L’epoca in cui scrive testimonia come, pur in maniera sempre blanda ed estremamente graduale, il regime di Mosca avesse allentato le briglie della repressione, per lo meno rispetto all’epoca stalinista.
Ha ragione Amalrik quando analizza le ragioni sociali di questo cambiamento, come il consolidamento di una folta schiera di professionisti formati dal regime, il maggiore livello intellettuale della “classe media” come egli definisce proprio quella dei tecnici (destinata inevitabilmente a crescere e ad assumere posizioni di sempre maggiore rilievo nella società sovietica,  costringendo il regime a posizioni sempre più blande).
Riflette forse meno, invece, quando esclude che una crescita possa verificarsi anche nel regime pechinese, spingendo, in qualche modo, il governo alla liberalizzazione e al progressivo allontanamento da una competizione strettamente militare con Mosca: non solo questo avvenne, ma le estreme gradualità e attenzione permisero alla Repubblica Popolare di sopravvivere, a differenza dell’URSS. Ciò detto, è chiaro che la svolta economica del regime di Pechino non esaurisce il novero delle proprie cause esclusivamente nella morte del suo leader, avendo esso origini piuttosto eterogenee che non è il caso di approfondire in questa sede.
Clamorosa poi la cronaca anticipata degli eventi che avrebbero scombussolato l’Europa appena due decenni dopo. Amalrik li descrive quasi tutti: dal crollo a catena degli stati del Patto di Varsavia al rafforzamento dei dissensi interni, dai fronti popolari all’indipendentismo delle Repubbliche Baltiche e di altri stati inclusi nella Federazione sovietica,. La differenza con quella che è stata poi la realtà sta nel modo in cui tutto ciò sia avvenuto: almeno in questo senso, si può dire che l’autore sopravvaluti decisamente le possibilità dell’URSS (fatto che non deve certo sorprendere, considerando che non aveva metri di paragone: del resto, era egli stesso vittima della mendacia delle fonti ufficiali), al punto da ritenere che solo un conflitto di dimensioni piuttosto grosse avrebbe fatto in modo che le numerose inefficienze strutturali dello stato socialista diventassero incapaci di riprodursi. E’ poi plausibile ritenere che un conflitto armato (dalle conseguenze incalcolabili) avrebbe condotto Mosca sul lastrico e il regime a tirare le cuoia, ma si tratta soltanto di una supposizione.
Ovviamente, le valutazioni degli esperti dell’epoca sono un’ attenuante per Amalrik: la forza del regime di Mosca fu sopravvalutata da tutti, anzi in questo senso l’autore rappresenta uno dei pochissimi che sia stato in grado di prevederne la scomparsa prematura. Il lato affascinante del libretto è proprio questo.

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