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domenica 14 dicembre 2014

Roma, una mattina come tante, e le delicate questioni nazionali di un tempo

Si parla, senza troppi giri di parole, del convegno organizzato dall'Università di Roma Tre sul tema Gli italiani dell'Austra-Ungheria e la Grande Guerra. E' chiamato da molti il Giubileo del primo conflitto mondiale, questo 2014 centenario da quei drammatici - ma non solo - eventi.

Chi studia la storia a certi livelli riconoscerà senz'altro l'importanza della tematica, tanto per cambiare svilita sul fronte mediatico dai più beceri qualunquismi (con qualche eccezione di rilievo come Rai Storia), le solite ramanzine etiche che di etico non hanno proprio nulla (se non sputare sul sacrificio di centinaia di migliaia di italiani, di cui la maggioranza costretta da autorità ed eventi come in qualunque tessuto sociale umano), ma, ciò che è peggio, la sottovalutazione di un fatto, quale la Prima Guerra Mondiale, che è fondamento di ciò che siamo adesso e rappresenta una tappa fondamentale della nostra esistenza, come di quella di tanti altri popoli stabilitisi definitvamente dopo la fine delle ostilità (e come, in generale, i conflitti bellici spesso hanno rappresentato per la storia di quasi tutti i popoli del mondo).
Il punto di vista è senz'altro particolare, visto che la base delle rivendicazioni italiane al 1914 era costituita da quelle terre irredente che ancora mancavano per il completamento dell'Unità, ( "come minimo il Trentino, la Venezia Giulia e l'Istria", diceva Sonnino) e interessarsi delle opinioni, dei sentori e delle posizioni degli italiani d'Austria è cosa non sempre approfondita.

La giornata d'apertura si è snodata in due sessioni, mattutina e pomeridiana: ci concentreremo su queste. Durante la mattina si è svolto un raffronto tra i punti di vista italiano e austriaco, unitamente ad una descrizione generale del problema storico. Nel pomeriggio si è parlato degli atteggiamenti ambivalenti degli italiani d'Austria.
Senza elencare tutti i numerosi studiosi che hanno partecipato all'evento (tra i quali Marino Zorzi e Lucio Toth della Società Dalmata di Storia Patria), arriviamo al primo nocciolo della questione, ossia la complessità di valori, idee e sentimenti che avevano gli italiani d'Austria. Un punto di vista innovativo, visto che la storiografia degli ultimi trent'anni ha teso soprattutto a sottolineare una certa ostilità di fondo degli italiani "imperiali" contro le ipotesi di riavvicinamento alla patria naturale. Artefici di questo orientamento sono stati vari studiosi, tra i quali spicca sicuramente il nome di Alberto Maria Banti, storico autorevole del Risorgimento italiano interessatosi anche di irredentismo. In realtà si comprende bene come - semplicemente - gli italiani d'Austria vivessero in condizioni del tutto rispettabili e aliene da qualsiasi tipo di persecuzione minoritaria, dal momento che l'Impero era notoriamente rispettoso delle identità nazionali che lo componevano. La questione è spinosa e di difficile traduzione immediata.

La parte più debole della conferenza, a modesto avviso di chi scrive, sta nella tentazione di ricadere in certe generalizzazioni, ancora retaggio dell'influenza monicelliana nella società italiana. In tal senso l'intervento meno interessante è stato quello del professor Antonio Trampus dell'Univerisità di Venezia, che nella sua relazione definisce le figure eroiche della vittoria italiana (ossia i soldati che si sacrificarono per il Paese, alcuni anche appartenenti all'esercito austriaco e giustiziati per tradimento, come Nazario Sauro) come "a tutti gli effetti mitologiche". Figure "spesso, anzi nella maggioranza dei casi, che non corrispondevano alle virtù delle persone comuni". Un'affermazione di una banalità sconcertante, ovviamente proferita con la solita supposizione che simili discorsi di eroismo o vigliaccheria debbano valere soltanto per il contesto italiano. Non serve la storia, ma la logica banale per comprendere che in un esercito di 100 persone, nella migliore e più miracolata delle ipotesi se ne troveranno una ventina disposte a morire senza paura per un qualsivoglia Paese. Il motivo dell'approfondimento di Trampus su questo elemento resta perciò un mistero.
Più interessante la digressione sulla complessità del conflitto, considerato erroneamente da molti come un passaggio definitivo per la concretazione delle aspirazioni nazionali di vari popoli, mentre in realtà è stato anche molto altro: pare abbastanza logico, da un punto di vista italiano, interessarsi della caratteristica più popolare, visto che ci ha riguardato direttamente, ma indubbiamente il richiamo all'approfondimento ha un senso che va difeso e sostenuto. In ogni caso la critica dovrebbe anche tenere conto della diffusione di testi scolastici come quello, piuttosto popolare, di Giovanni Sabatucci e Vittorio Vidotto che, in tutta onestà, ben approfondiscono le innumerevoli novità e le concause che si concentrarono in quel gigantesco fenomeno della prima guerra mondiale.
Appropriata la valutazione negativa dell'influenza di studiosi come Eric Hobsbawm su questa tendenza: la periodizzazione e la specificazione degli eventi in senso tendenzialmente univoco si è infatti accresciuta parecchio dalla pubblicazione de Il secolo breve in poi. 

Arriviamo ai tre interventi più incisivi della giornata: Luca Riccardi (Università di Cassino), Andreas Gottsmann (Istituto storico austriaco di Roma), Egidio Ivetic (Università di Padova). 
I punti di discussione: la Grande Guerra dal punto di vista italiano, dal punto di vista austriaco, e un appunto critico sugli italiani di Dalmazia.

Riccardi ci consegna una valutazione obiettiva e coerente delle dimensioni politiche dell'Italia del tempo, sottolineando in modo eccessivo i punti deboli (il che non è una novità, purtroppo, nella storiografia italiana) ma ricordandosi, per fortuna, dell'importanza di quelli forti. Su tutti una vera apologia del Ministro degli Esteri dell'epoca (per la precisione dal marzo 1910 alla morte avvenuta il 16 ottobre del '14), Antonino Paternò Marchese di San Giuliano, definito addirittura il migliore della storia italiana (forse non a torto), con la sua capacità di preparare gli accordi con l'Intesa di fronte all'ennesimo rifiuto austriaco di consegnare Trentino, Venezia Giulia ed Istria in cambio di una neutralità nella nascente guerra o addirittura di una discesa in campo dell'Italia al fianco degli Imperi centrali. Il concetto di per sè non è così banale, sono pochi gli anni da cui si rivaluta parecchio la figura di San Giuliano: fino a qualche decennio orsono, il vero artefice del Patto di Londra è sempre stato considerato Sidney Sonnino (successore del siciliano al ministero) il che è parzialmente vero per la gestione dei rapporti con le potenze dell'Intesa nei mesi successivi, ma troppo superficiale in quando dimentica dell'apporto fondamentale dato dal Marchese.
Il messaggio migliore trasmesso dall'analisi di Riccardi è quello finale: il riconoscimento di un fatto che, ad oggi, tutti faticano a sottolineare, distratti dai numeri negativi della storia italiana e dalle sue sciagurate tendenze in questo ambito: il fatto che l'Italia, in quel periodo e sebbene a fatica, si sia comunque trovata indiscutibilmente tra le prime 5 potenze mondiali, e che questo status sarebbe rimasto fino al disastro della Seconda Guerra Mondiale. Un punto ribadito anche da altri studiosi presenti alla Conferenza: si provi a pensare cosa succederebbe se questi signori occupassero poltrone di programmi "culturali" televisivi.

Giusto qualche accenno al monologo del professor Gottsmann, il cui merito maggiore è da ricercarsi nell'equilibrio: nessuno scomponimento, massimo distacco ed enunciazione dei fatti. Non c'era antipatia verso l'Italia in Austria: il quadro era complesso e composto di vari sentimenti, dalla massima stima per quelli che venivano visti come operai onesti o lavoratori del mercato ortofrutticolo (coloro che abitavano nell'Impero al tempo) ad un certo pregiudizio verso i commercianti di frontiera, ritenuti furbi e all'opposto imbroglioni. Odio generale scatenato dalla propaganda, invece, dopo l'abbandono dell'Italia della Triplice.

Eccellente l'intervento del professor Ivetic, di origine dalmata (Pola), che fotografa con notevole realismo la questione della Dalmazia nello scacchiere internazionale e i suoi riflessi sul Patto di Londra. Che la questione irredentista nel litorale adriatico orientale non si potesse porre è una cosa ormai arcinota: sono questi i primi squilli del discorso. Nel 1910 c'erano 30.000 italiani nell'area, circa il 3% della popolazione totale, concentrati per lo più nelle grandi città costiere e poco presenti nell'entroterra abitato totalmente da slavi.
Numeri che parlano chiarissimo, l'Italia avanzava pretese senza che ci fosse alcuna ragione sociale per muoverle. Una certa storiografia in voga negli ultimi decenni tende a criticare la scelta del nostro Paese di spingere per la conquista, allineandosi alle tesi estere, che riconoscono la legittimità di tutte le altre "mire" italiane (Trentino e Venezia Giulia su tutte).  Ma è qui che il discorso di Ivetic diviene interessante. I decenni successivi ( passando per il secondo conflitto mondiale fino al secondo dopoguerra ) mostrano inequivocabilmente la ragione italiana sulla questione dalmata, per vari motivi. Tra i meno importanti c'è la questione storica: Zara, Pola, Ragusa, sono tutte città storicamente italiane e dovevano "tornare" italiane. Ma la vera preoccupazione di Sonnino riguardava le tensioni di confine con gli slavi. I fatti gli hanno dato pienamente ragione, la necessità di costruire lo "scudo" adriatico era veramente importante, come dimostrano i disastri avvenuti dalla primavera del 1945 a tutto l'anno successivo, quando i partigiani di Tito fecero man bassa di italiani di frontiera e, nella migliore delle ipotesi, li cacciarono da casa. Sonnino previde meglio di tanti altri la futura esplosione di una situazione precaria, comprese la rottura di un assetto balcanico che la futura Jugoslavia avrebbe contribuito solo a rimandare.

Molti altri gli argomenti affrontati e le fonti citate: poco, decisamente, lo spazio per quella che è solo una sintesi.
Tirando le somme? Un convegno che dimostra, semmai ce ne fosse ancora bisogno, la distanza siderale tra la cultura di massa e quella accademica, ma soprattutto tra la storia mediatica e quella reale (o con il proposito di esserlo con metodo scientifico). Quella mediatica è un cancro, accresciutosi dopo le prime analisi fredde sul Fascismo di una ventina di anni fa (ma risalenti la prima volta a Renzo De Felice), che hanno portato una sorprendente diffusione negativista dell'appellativo "revisionista". In modo talmente cancerogeno che oggi chi non sa nulla di storia (ma spesso è pure convinto di esserne depositario) grida al revisionismo come a un crimine contro l'umanità, ed è puro fiato sprecato spiegargli che lo storico faccia quello di mestiere, ossia revisionare, cercare, approfondire. 
Quanto all'accademia, va detto che anche le correnti più obiettive di questo pianeta non possono sfuggire sempre e comunque alle tendenze olistiche della società odierna, in particolare italiana (e qui si sottolinea di nuovo l'intervento del professor Trampus), ma in ogni caso il maggiore distacco riesce nell'intento di trasmettere una versione più obiettiva dei fatti, come da tradizione.

Chiudo con una considerazione d'epoca: oggi l'Italia è un Paese completamente allo sbando, senza nessun sentimento nazionale ed, anzi, una palese vergogna dello stesso. Sono i risultati di 70 anni di Repubblica altamente diseducativi, dove si è confusa l'importanza del collante nazionale (una cosa fondamentale in qualsiasi contesto sociale, che non nasce dal nulla ma attraverso un'esempio quotidiano prima indiscutibile, oggi inesistente) con la critica del Fascismo che, ad un cervello libero, si può concedere senza alcun problema.
Eventi come la Prima Guerra Mondiale si distaccano decisamente dall' equivoco del Risorgimento ottocentesco (movimento culturale che non ha la mia minima approvazione, nonostante sia uno dei pochi in questo paese a sentirsi orgogliosamente italiano) e dimostrano l'esistenza di uomini, come i citati San Giuliano e Sonnino, che oggi possiamo solo sognare.
Tutto questo senza nemmeno nominare gli anni della stagione patriottica per eccellenza: non ce n'è bisogno, basta la - pur criticabilissima - Italia liberale.

La Costituzione del 1948 ha fallito anche in questo, oltre che sotto il profilo governativo: dovrebbe far riflettere in molti, ma essere sordi negli ultimi decenni è diventata una qualità genetica dell'italiano medio.

2 commenti:

  1. Per maggiore utilità e comprensione del lettore di questo blog riporto volentieri le parole letteralmente da me pronunciate, alle quali si riferisce il commentatore:
    "La storiografia italiana degli ultimi cinquant’anni ha giustamente considerato per così dire acquisita la dimensione eroica degli italiani che sfidarono l’Austria-Ungheria arruolandosi nelle file dell’esercito regio, animando la stagione dell’Irredentismo o vivendola da fuorusciti o da emigrati. E, per altri versi, molto è stato fatto anche per dare più ampio spazio a una storia “dal basso”, al recupero della memorialistica minore, alla ricostruzione della dimensione meno eroica e più quotidiana, com’è nel segno anche di alcune pubblicazioni usciti in questi ultimi mesi. Molto rimane però certamente ancora da fare per ricostruire i sentimenti degli italiani d’Austria-Ungheria negli anni che precedettero la Grande Guerra.
    Paradossalmente proprio la dimensione eroica prima richiamata potrebbe fornire tracce dei chiaroscuri. Oggi le le neuroscienze e la neurolinguistica, ci rendono più evidente il fatto che spesso le testimonianze eroiche assumono, nel contesto di una determinata epoca storica, una funzione compensativa. Gli eroi dell’Irredentismo e della causa italiana nell’Austria-Ungheria si presentano cioè anche sono storie epiche di qualità personali ed eccezionali di cui, in realtà, la maggior parte delle persone comuni era allora sprovvista e che si poteva specchiare, almeno con l’immaginario, in queste figure esemplari".
    Per questo occorre ricordare sempre la funzione esemplare delle figure eroiche, perché come giustamente scrive il commentatore "Non serve la storia, ma la logica banale per comprendere che in un esercito di 100 persone, nella migliore e più miracolata delle ipotesi se ne troveranno una ventina disposte a morire senza paura per un qualsivoglia Paese"
    cordialmente
    Antonio Trampus

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  2. La ringrazio moltissimo per la sua risposta, chiarificatrice di un punto per me fondamentale nello studio del problema. Resto di opinione leggermente diversa su una certa prosa del racconto secondo me in certi passaggi aleatoria. Ma è un gusto da puro spettatore, in questo caso, benchè interessato, di quelli che sono i vostri studi, per me fondamentali per rivalutare un periodo storico oggetto di un criticismo per me eccessivo. Un caro saluto

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