Copertina

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A Walt Disney Silly Symphony!

martedì 20 gennaio 2015

Un' arte ancora non rivalutata

Tra gioco, cultura e realtà corrisponde a dei contenuti eterogenei, dicevamo. E' una delle rappresentazioni possibili dell'approfondimento e del sapere moderno, viste dagli occhi di chi, come il sottoscritto, ancora non si ritiene un dotto ma un "semplice" affamato di conoscenza, di cultura e di arte. L'animazione è stato uno dei miei campi di interesse fin da bambino, con la crescita è divenuta una passione artistica e di studio, al punto tale da farmi quasi scrivere una tesi di laurea dedicata all' Età dell'oro (poi abbandonata a causa della prepotente crescita dei miei interessi in campo storico). 

Dell' Età dell'oro parleremo in un'altra occasione. Per ora basti capire che la maturità mi ha portato alla convinzione di dover diffondere i giusti meriti della disciplina, mai veramente riconosciuti dalla critica mondiale (e lo dimostra l'impossibilità per qualsiasi lavoro animato di vincere l'Oscar per il miglior film, pur andandoci vicino in un paio di occasioni: cito il premio americano perchè è quello più famoso, solo per evidenziare la questione, non voglio soffermarmi sul giudizio allo stesso, da parte mia ben lungi dall'essere positivo).
Fanno eccezione le pellicole giapponesi, che però non si sono mai davvero dedicate all'animazione fine a se stessa e alla musica che da sempre l'accompagna (se escludiamo qualche autore notevole), ma hanno ben pensato, per usare una frase metaforica ma secondo me chiarificatrice, di dare una trama alla Gioconda. L'animazione come Arte è argomento settoriale, perchè - a torto - non le viene ancora dato lo stesso peso (per citare un'arte diversa al solo scopo di far comprendere) di un dipinto di un Da Vinci o un Caravaggio. Immaginiamo possa accadere in futuro, quando noi saremo polvere, fatto sta che, ad oggi, ancora non è avvenuto.
Mi propongo di utilizzare queste righe anche per tracciare una breve presentazione storica, rifuggendo quindi dall’ignoranza più becera di chi liquida erroenamente come “infantile”, quella che è stata la vera forma d’arte del secolo scorso, la vera pittura dei tempi moderni, capace di raggiungere attimi di estasi visiva senza precedenti. Lo faccio riproponendo una mia vecchia ricerca datata qualche anno, ma che ben si sposa con l'obiettivo "archivistico" di Tra gioco, cultura e realtà.

Walt esibisce i suoi sette gioielli
Quando si parla di animazione, viene spontaneo pensare al nome di Walter Elias Disney, questo folle factotum, disegnatore, autore, produttore e animatore che con le sue opere ha sconvolto il mondo, stupendolo e qualche volta anche irritandolo. Molti profani lo ritengono addirittura l’inventore della disciplina, e sebbene questa affermazione sia completamente fuori della realtà (il  concept ha delle radici risalenti addirittura all’antica Cina), presenta qualche elemento credibile: Disney è stato senza dubbio colui che ha lanciato l’animazione, che gli ha conferito per la prima volta visibilità, che ne ha elevato il rango portandolo ai livelli del cinema tradizionale: ma più di ogni altra cosa, a lui si deve l’inscindibile correlazione consolidatasi, soprattutto in occidente, tra il disegno animato e l’elemento musicale.
Per anni, la Walt Disney Pictures è stata identificata con il suo creatore, e dopo la sua morte nessun altro autore ha raggiunto la medesima popolarità mediatica. Storicamente però, Disney un erede autentico lo ha avuto, non certo geniale come il maestro, né minimamente intraprendente allo stesso modo, ma che ha segnato la vita della compagnia e della sua produzione artistica negli anni ’60 e ‘70.

Wolfgang Reitherman
Parliamo di Wolfgang Reitherman, animatore di spicco della compagnia, giovanissimo, sin dai tempi della produzione di Biancaneve (1937). Chiamato dai colleghi affettuosamente Woolie, Reitherman ha diretto tutti i film Disney dell’epoca,  gli ultimi due prima della morte di Walt (La carica dei 101, La spada nella roccia) per poi distinguersi in opere quali Il Libro della Giungla, Gli Aristogatti, Robin Hood. La sua fama in seno alla compagnia si accrebbe in conseguenza dell’appartenenza al gruppo dei cosiddetti Nine Old Men, a cui appartenevano anche artisti quali Frank Thomas e Ollie Johnston, che lavorarono con il regista tedesco fino alla fine degli anni ’70. 

Così chiamava il suo gruppo di “fedeli” lo stesso Walt Disney, accostandoli metaforicamente a Franklin D. Roosevelt e ai nove giudici della Corte Suprema americana, forse per il valore indiscutibile degli artisti e per l’apporto decisivo che diedero nella realizzazione delle sue idee.
Gli anni di Reitherman, comunque, furono insoliti per una compagnia come la Disney. Chiunque erroneamente pensa al gigante americano come una casa produttrice che non badava mai a spese quando si trattava di produrre un lungometraggio, che si allontanava dalle politiche al risparmio proprie dei giapponesi. In realtà, non è stato sempre così.
Era senz’altro indubbio che una produzione Disney (e occidentale in generale) restasse, come budget e impegno “umano” quantificabile, sempre su un altro pianeta rispetto alla nascente concorrenza orientale, ma negli anni che raccontiamo anche a Burbank tirarono il freno a mano su questo fronte. 

La compagnia veniva da alcuni insuccessi commerciali piuttosto pesanti, dovuti in parte alle scelte artistiche estremamente coraggiose di Walt, e in parte alla sorte avversa: sicuramente, il filone dei concerti filmati (Fantasia, Musica Maestro) fu per la compagnia fu un vero salasso, ma non aiutò nemmeno l’insuccesso di pellicole teoricamente blockbuster quali La Bella Addormentata, all’epoca passate in sordina a causa dello stile particolarmente originale.

Sono gli anni della Xerox, inventata da uno degli ultimi collaboratori di Walt, Ub Iwerks: non siamo tecnici allo spasmo e non entreremo nello specifico, ma in pratica essa permetteva di fotocopiare rapidamente sulle cell (le plastiche atte a “impastare il disegno” per poi colorarlo) fotogrammi già utilizzati in passato. Ecco perché, tra una Carica dei 101 e una Spada nella Roccia, finendo con una Bianca, lo stile estetico era sorprendentemente rassomigliante, fatto di quelle immagini spigolose, quelle matite accentuate, e talvolta, vere e proprie scene riciclate con dei personaggi differenti (penso soprattutto alla festa jazz degli Aristogatti e a quella nella foresta di Robin Hood).
Tutto in full animation, nulla che ricordasse solo lontanamente le stasi prolungate degli Anime, per carità. Fino a Le avventure di Bianca e Bernie (1977), il filone stilistico fu pressochè continuo, e Reitherman entra pertanto nella storia per essere stato l’unico regista dopo Walt ad aver seguito un percorso artistico ben definito ed estremamente personale. Dopo il suo pensionamento, nel 1981, la Disney prese altre strade,  alcune fallimentari ma sperimentali oltremisura (Taron e la Pentola Magica su tutti, ad oggi l’unico classico Disney ad aver esplorato il Fantasy) per poi tornare ad investire seriamente e dar vita a quel filone ormai mitologico partorito negli anni ’90.
Il valore indiscutibile di quelle pellicole dimostrò ancora una volta che la tecnica nell’animazione, pur rivestendo un ruolo primario, poteva non essere accentuata oltremisura, purchè tenesse fede al principio cardine della disciplina: animare, senza sosta, senza pensieri, dritti per la propria strada, offrendo prima di tutto uno spettacolo visivo che oggi anche autori giapponesi come il mai troppo lodato Miyazaki hanno dimostrato al mondo di poter finalmente curare degnamente.

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