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sabato 9 gennaio 2016

AntiMoretti, per una cultura reale


Oggi pensavo a come, nel corso dei decenni, il binomio sinistra/cultura abbia raggiunto, dal 1948 in poi, vette impensabili e totalmente distanti dal realtà. 
Un binomio iniziato con la famosa Amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 con cui lo storico segretario del Partito Comunista Italiano tentò, in parte riuscendoci, di inglobare nelle fila dell'emergente PCI molti intellettuali di chiara estrazione fascista. 
Questo tentativo, com'è noto, raggiunse parecchi risultati rilevanti e può essere considerato il primo passaggio di quella costruzione del consenso che la sinistra italiana avrebbe rafforzato sempre di più pur non uscendo da un contesto di minoranza all'interno del Paese. Tra i successi si può ricordare lo storico Delio Cantimori, tra gli insuccessi è noto il caso del drammaturgo ed attore teatrale Giorgio Albertazzi, che non rinnegherà mai la scelta di combattere volontario nella RSI dopo la caduta del regime e l'8 settembre 1943. 

In ogni caso, da quel momento in avanti, l'espansione del profilo culturale, il reclutamento di intellettuali, il progressivo avvicinamento di intere case editrici ai temi e ai valori di sinistra (alcune in modo ufficioso, come avvenuto con la Mondadori, altre in modo esplicito, come testimoniano i finanziamenti di Giangiacomo Feltrinelli ai gruppi estremisti rossi) proseguì praticamente senza sosta fino alla caduta del muro di Berlino il 9 novembre del 1989. 

Non poteva mancare all'appello la cinematografia, letteralmente invasa da autori di sinistra negli anni del dopoguerra: per lo meno, invasa da registi e sceneggiatori che, in qualche modo, parlassero dell'argomento o lo enfatizzassero. Tra i tanti, possiamo cominciare dai noti come Pier Paolo Pasolini, passando per Luigi Comencini, giungendo ai relativamente moderni Nanni Moretti, Massimo Troisi o Roberto Benigni.  Chi non era di idee progressiste, come un Vittorio De Sica prima o un Pupi Avati poi, raramente affrontava di petto l'aspetto politico e più spesso si occupava direttamente di altro.
Tralasciando Troisi che, per fortuna, non è mai stato un vero riferimento di genere culturale-elevato, si potrebbe parlare a lungo di Benigni, un uomo che si improvvisa intellettuale (convincendo anche molti italiani di esserlo) grazie a letture recitate sicuramente interessanti della Divina Commedia, a interpretazioni simpatiche di Pierino e il Lupo di Sergej Prokof'ev, ma quel che è peggio ad un imbarazzante discorso celebrativo fatto sulla Rai, in diretta tv, in occasione del 150°anniversario dell'Unità d'Italia in cui, con fare sicuro e non contestato da nessuno, ebbe il coraggio di definire gli antichi romani come degli italiani diretti ("combattevano contro i cartaginesi ma erano italiani") ignorando, facendo finta di ignorare (non ci interessa, badiamo al sodo) secoli di mescolanze successivi al  dramma delle invasioni barbariche del 476 d.C. che, effettivamente, generarono quello che a partire dal 950 d.C. circa possiamo considerare il popolo italiano. 

Ma ce ne guardiamo bene, perchè l'oggetto del discorso, al termine di questa lunga e faticosa premessa, è Nanni Moretti. Non sicuramente il profilo più intellettualoide partorito dalla cultura di sinistra, direte voi. Ed è vero. Però non privo di quella sicurezza tipica di una mentalità che negli anni ha acquistato la spavalderia di poter proferire qualsiasi sciocchezza senza alcuna contestazione, magari essendo convinto pure della veridicità di quanto si afferma.

Il film oggetto della mia riflessione è Sogni d'oro (1981), una pellicola che racconta di un regista frustrato per l'incomprensione che il pubblico mostra per il lavoro del cineasta, con accezione anche piuttosto polemica. Non sono interessato a giudicare il film nè Moretti (che sì, ritengo un autore enormemente sopravvalutato ma che in questa sede viene osservato in altro senso), ma solo questa scena.


Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema, tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? [...] Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco! Parlo mai di epigrafia greca? Parlo mai di elettronica? Parlo mai delle dighe, dei ponti, delle autostrade? Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!

Questo, in sintesi, il pensiero critico di Michele Apicella, il protagonista frustrato della pellicola. Arriviamo al nocciolo della critica. 
Il concetto di contestare l'ignoranza è, ovviamente, sacrosanto. Oggi ancora più che in passato: siamo sconvolti da internet e abbondano i personaggi da tastiera che scrivono di tutto e di più, spesso senza la minima preparazione. La frase di Moretti in questo film, però, dimostra la differenza che separa il regista romano da esimi intellettuali ideologicamente affini che hanno abbondato nel campo cinematografico, e certo appare assurdo pensare che egli stesso abbia scritto e diretto film in contemporanea ad artisti preparati sul serio quali potevano essere ancora Bernardo Bertolucci  o Ettore Scola.

Ciò che si nota immediatamente è che, nel suo sfogo, il regista protagonista paragona il cinema (quindi un'attività umanistica, non scientifica, ma assimilabile alla letteratura o, al limite, alla musica) con una sfilza di scienze fisiche, ingegneristiche, filologiche, sperimentali, psicologiche e addirittura mediche che, invece, si rifanno a contesti di studio assolutamente oggettivi e privi dell'elemento umanistico (per lo meno in via esclusiva, se consideriamo l'"eccezione" costituita dall'epigrafia greca). 
E' un raffronto - del tutto improprio - che lascia aperti dubbi sulla reale conoscenza di certi argomenti. 
Innanzitutto le materie umanistiche come la letteratura (o il cinema) producono opere non inquadrabili sempre e comunque da un punto di vista tecnico, ma anche sotto altri profili, su tutti il concetto di ispirazione, di valore complessivo dell'opera, e in sintesi di arte. Per questi tipi di discipline, non a caso, esistono due piani di critica.  
La prima è la cosiddetta critica giornalistica, ossia quella che siamo abituati a leggere come recensione - salvo rarissime eccezioni - quando sfogliamo la pagina di spettacolo su un quotidiano o su un sito specializzato. Non c'è bisogno di una formazione tecnica per scrivere in questo ambito: si tratta di appassionati conoscitori della storia cinematografica che, attraverso anni di esperienza visiva (e in qualche caso anche con modesti talenti) rappresenta e giudica il valore, spesso a caldo, di certe opere. Senza avere la pretesa. ma con la convizione soggettiva, di essere vicino alla verità. In sintesi, la critica giornalistica è un consiglio dato al lettore.
Poi c'è la critica teorica, che è tutt'altra storia: essa non si rivolge a tutti i lettori ma solo ad una frangia estremamente di nicchia. Non si propone solo di giudicare il film e di consigliarlo, ma anche di proporre una disamina estremamente attenta delle sue caratteristiche. 
Ora, tutte le discipline elencate da Moretti in contrasto al "cinema di cui si sentono in diritto di parlare tutti" nella scena non possono produrre critica giornalistica. Questo per la natura estremamente tecnica delle stesse, impossibili da giudicare nemmeno in via ipotetica, a differenza di un libro o di un film per i quali, appunto, non è strettamente necessario essere nè dei letterati nè dei tenici della ripresa.
Chi scrive non ritiene di essere un dotto, ma solo un attento osservatore del reale con - perchè  no - anche una formazione culturale che non si può considerare mediocre.


Però fa pensare come una certa cultura politica abbia enfatizzato intellettualmente figure di ogni tipo, tanto quelle di una mente illuminata quale era - e lo ricordiamo di nuovo - Pier Paolo Pasolini, una vivace quale quella di Ettore Scola (in foto), quanto immagini come quelle rappresentate dal già citato Roberto Benigni e, in questo caso, Nanni Moretti.

La scena di Sogni d'oro mostra una supercifialità estrema. La cosa peggiore non è nemmeno il risultato finale, ma il fatto - veramente clamoroso - che sia diventata una specie di icona storica per rappresentare e criticare al meglio il concetto di ignoranza. Un mistero di cui mi sento ancora vittima: negli anni ho pure cercato di immaginare che sia stata una scelta voluta, ma ciò non toglie che lo strafalcione sarebbe stato notevole se solo qualcuno lo avesse fatto notare dall'inizio, alzando la voce sul serio. 

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