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A Walt Disney Silly Symphony!

giovedì 24 novembre 2016

Il "Sì" e lo spettro della Monarchia del "NO"



Anzitutto una premessa piuttosto lunga, di natura tecnica ed antropologica. Il sistema che viviamo al gennaio del 1948 è una struttura costituzionale di tipo parlamentare che garantisce un'uguaglianza totale (o quasi) dei quadri dirigenti, leggasi un impianto gerarchico pressoché inesistente nell'ambito parlamentare e governativo. Un meccanismo che attribuisce a 945 deputati e senatori poteri a tutti gli effetti non così inferiori a quelli di un ministro della Repubblica o di uno stesso capo del governo, nella diversità delle funzioni, e - numeri alla mano - superiori a quelli di un presidente della Repubblica. Il capo del governo non può scogliere le camere, non può nominare ministri ma solo proporli, è vincolato alla fiducia di due camere che fanno le stesse ed identiche cose.

Ne deriva un'autonomia di azione che si può estrinsecare in capacità di ricatto, di spinta al compromesso e di veto elevatissima per ogni gruppo parlamentare. Tutte prerogative che esistono a prescindere dalla legge elettorale vigente. Che si tratti di un proporzionale puro, di un maggioritario, di un Mattarellum, Porcellum o il recente Italicum, il singolo parlamentare ha il potere di prolungare le discussioni in aula in eterno e di chiedere garanzie e compromessi al governo, senza che nessuno glielo possa impedire.

La prima deduzione antropologica sta in quanto segue: non esiste possibilità, per chiunque emerga in questo quadro immobile, di poter esprimere un progetto costruttivo che possa svolgere passaggi importanti. E non perché gli italiani siano cattivi mentre nel resto del mondo siano tutti buoni, ma perché la legge (in questo caso la Costituzione) permette di dare "libero sfogo" alle tendenze umane. In misura diversa, è come se domani mattina venisse legalizzato il furto. Si potrebbe senz'altro sostenere che per non rubare basti non volerlo, ma nessuno si sognerebbe mai di depenalizzare l'appropriazione indebita di soldi o beni altrui, perché è ben nota la possibilità che l'uomo svolga un'attività di questo tipo, anche se non in senso assoluto ed universalistico. Esattamente come oggi si sostiene che "se la politica vuole lavora e fa le leggi". Certo, potrebbe. Ma le regole servono per obbligare e tenere sotto controllo le devianze.

Il fatto che in Italia (e solo in Italia, visto negli altri 28 paesi europei vige un sistema unicamerale o al massimo bicamerale con due funzioni diverse) i due rami del Parlamento abbiano le stesse caratteristiche è assolutamente a tutela di una libertà dell'individuo di svolgere la propria funzione di deputato o di senatore sviluppando questo potere di ricatto e compromesso, che sia in un piccolo gruppo o in un grande partito rappresentato a Montecitorio e Palazzo Madama.

Gli altri sistemi istituzionali occidentali qualche "regola" ce l'hanno, visto che di fatto obbligano una delle due parti o a "fare altro" o all'inesistenza, in favore di una maggiore scorrevolezza del sistema e di un lavoro comunque stipendiato da tutti i cittadini (che siamo noi).

La seconda deduzione antropologica sta in quanto segue: non abbiamo dati, ma credere che su circa 1000 politici di vertice su scala nazionale non ne esista nemmeno uno con qualche buona idea e con la voglia di migliorare la parossistica vita dei propri cittadini è quanto meno azzardato, anche solo per una questione di grandi numeri. Non abbiamo gli strumenti per poterlo verificare però, dal momento che ogni qualvolta nasca una minima proposta tendente al miglioramento (reale o presunto), questa viene inghiottita nel marasma della parità di privilegi di deputati, senatori e di tutto il quadro istituzionale nazionale.

La terza e ultima deduzione antropologica non può che sottolineare il progressivo inacidirsi del cittadino medio verso la classe politica, a piena ragione tra l'altro, ma nella "inconsapevolezza media" di questo stato di cose cancerogeno. È aprioristico che l'italiano medio pensi che qualsiasi nuovo esponente della classe dirigente non farà i suoi interessi né quelli del Paese, ma sempre i propri personali, in un quadro di sfiducia che si alimenta giorno dopo giorno. Il problema è che l'italiano medio, giustamente dal suo punto di vista (non certo quello di un fine politologo o di un analista, ruoli che non è tenuto a dover recitare) si concentra sull'effetto di questo sistema e non sulle cause. Ulteriore e gravissima conseguenza, ogni qualvolta la politica esprime esponenti di un certo taglio, questi saranno in breve massacrati da una critica giornalistica che sostanzialmente "vive di questo" e che costruirà attorno ad essi la stessa immagine negativa dei loro predecessori, bloccando qualsiasi processo virtuoso teso, per lo meno, a dare fiducia al proprio operato e, semmai, giudicarlo dopo.



Dopo qualche anno possono scattare rivalutazioni parziali o monche, a seconda dei casi. Ma in una fase in cui tutto ciò è ormai inutile, visto che l'esponente politico non è più al "potere" (parola grossa se si pensa al capo del governo italiano) e che, quando c'è stato, si è fatto di tutto per ostacolarlo. Un atteggiamento che si è palesato già agli inizi della Prima Repubblica, quando Alcide De Gasperi, ben consapevole del pasticcio istituzionale che si era creato nell'elaborazione della Costituzione, nel 1953 varò la legge elettorale che, con enorme malafede, la storia ancora oggi ricorda come "truffa". Il motivo di questo epiteto? Il solito, propagandistico e ben poco sostanziale, la "deriva autoritaria" che si dichiara ogni qualvolta si proponga una legge in grado di garantire maggioranze parlamentari un po' più forti al vincitore delle elezioni, essenziali per potergli permettere di svolgere il proprio lavoro (comunque fino ad un certo punto, perché, come spiegato sopra, nel sistema italiano avere una maggioranza forte non dà alcuna garanzia di fare tutto ciò che si pare: 600 parlamentari a proprio favore non votano sì come dei robot, ma chiedono ulteriori compromessi in cambio del proprio voto).



È un atteggiamento contro cui ha dovuto combattere anche uno statista di grande livello - forse l'ultimo che la storia abbia decretato come tale, in Italia - come Bettino Craxi, il quale con un autentico capolavoro politico e un partito con circa il 10% dei voti, è riuscito a diventare presidente del Consiglio e a governare per ben cinque anni, dal 1983 al 1987, seppur in due governi diversi. Per motivi completamente diversi, è capitato anche a Silvio Berlusconi, azzannato anche quando ha proposto delle riforme di assoluto rilievo (come quella Costituzionale del 2005) o promosso una politica estera conciliante verso la Russia, e le potenze regionali arabe (oggi anche molti suoi detrattori di allora dicono "beh, forse aveva ragione"). 


I grassettati dei tre presidenti del Consiglio citati non sono casuali, visto che sono quelli che hanno governato di più nella storia della Repubblica: 5 anni De Gasperi, 5 anni Craxi, 9 anni (in tre esecutivi) Berlusconi. Tutto il resto? Meteore senza possibilità di programmazione. 63 governi in 70 anni, e il massimo storico a parte questo "trio" è di un paio di anni circa a Palazzo Chigi. Si torni alla prima deduzione antropologica di cui sopra: il furto può essere legalizzato domani, e si può senz'altro sostenere che la politica, se vuole, può mettersi d'accordo e non far cadere i governi. Ma tutto ciò è incompatibile con la natura umana, ed è del tutto naturale che ci sia la legge a disciplinarne i limiti.

Cosa propone questa riforma istituzionale? Tre cose, molto semplici. La fine di questo maledettissimo bicameralismo perfetto e la doppia fiducia, regole più sicure per i parlamentari che lavorano con i nostri soldi e che oggi fanno tutto ciò che gli pare (voto a data certa, differenza di funzioni), ritorno allo Stato di materie esclusive come l'energia, le infrastrutture e il commercio con l'estero, riduzione del numero di parlamentari.

Sulla prima: il Senato non voterà il 95% delle volte e sarà tenuto a votare a data certa le leggi. Su 5 leggi all'anno (come quelle di Stabilità e bilancio) il famoso "ping pong" rimarrà. È poco, è molto, è qualcosa? Direi che "è qualcosa" dal momento che - mi preme molto questo punto - i parlamentari non sono lì in vacanza, ma a svolgere un lavoro stipendiato dalle mie (e vostre) tasse.

Sulla seconda: lo Stato riprende centralità per delle funzioni che sono state il vero incubo di tutti i governi che si sono succeduti dal 2001 ad oggi. Si deve costruire un'autostrada? Devi mettere d'accordo due regioni che, con regimi diversi, disciplinano la materia. Si deve fare un piano energetico? Impossibile, praticamente, su scala nazionale, a meno che 21 apparati non si mettano d'accordo in tutto (ancora la prima deduzione antropologica contro il "se si vuole si può" senza porre mai una domanda fatidica: ma se non si vuole da sempre, cosa facciamo? Ne vogliamo prendere atto e stabilire delle regole uguali per tutti, o dobbiamo continuare con questa manfrina per l'eternità?).

Sulla terza: siamo il parlamento più numeroso e costoso al mondo. Sono tutti stupidi altrove (esattamente come per il bicameralismo differenziato o l'unicameralismo) o siamo noi a costituire un'anomalia? Per carità, il risparmio dei costi non è un'argomentazione decisiva, ma roba utile ai grillini che credono davvero che i costi della politica abbiano un peso in un "fatturato" come quello statale che conta decine di miliardi di euro.

Passiamo, in ordine sparso, alle obiezioni del NO.

La prima sostiene che, il nuovo Senato "ci consegna all'Unione Europea e diminuisce ulteriormente la nostra sovranità nazionale". Il motivo? La parola "Unione Europea" citata nel nuovo articolo 117 della Costituzione. Per semplicità, linko anche l'attuale articolo 117
Secondo gli scandalizzati del NO, la parola Unione Europea sulla prima frase generica riguardante il Senato consegnerebbe sovranità a Bruxelles. Dati e scritture alla mano, è falso. Mettendo le due versioni del testo fianco a fianco, nel nuovo articolo è testualmente precisato:

"La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea e dagli obblighi internazionali."

Nell'attuale versione è precisato:

"La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali."

Viene sostituito "ordinamento comunitario" con "Unione Europea", due espressioni a tutti gli effetti sinonime. L'Unione Europea È un ordinamento comunitario, e la differenza (o meglio l'identità spacciata per differenza) è esclusivamente terminologica.  
Per gli appassionati delle espressioni europeiste: se mettiamo di fianco a fianco le prerogative di esclusiva competenza dello Stato elencate nell'articolo poi, non c'è alcun accenno all'Unione Europea.
Le competenze nei due articoli sono esattamente le stesse. Cambiano gli ultimi tre punti (monopolio energetico, commercio con l'estero, infrastrutture) che peraltro rappresentano un ritorno al "pre-2001" quando erano di competenza dello Stato centrale.
Chi scrive è un sovranista convinto, ostile all'UE come alla NATO. Ma il 4 dicembre non andiamo a votare sulla nostra sovranità: quella l'abbiamo persa nel 1948 e, se la recupereremo mai, lo faremo a prescindere da questa riforma, che con la sovranità non c'entra niente e chi l'ha tirata in ballo lo ha fatto solo ed esclusivamente per attirare il NO dei sovranisti.

Seconda obiezione del NO: la riforma è scritta male e l'articolo 70 è lunghissimo. Vabbè. L'articolo 70 spiega le funzioni di Camera e Senato. Risulta evidente che, quando doveva descrivere due organi uguali, lo poteva fare in massimo tre righe. Se le funzioni sono diverse, ovviamente le righe diventano molte di più. Se qualcuno constata una differenza con lo stile giuridico di altri articoli o non ha mai letto un testo di diritto o è in malafede. Probabile la prima, del resto non credo proprio che gli italiani leggano tutti la costituzione come se fosse una favoletta di Esopo.

Terza obiezione del NO, che è quella che fa sempre ridere: "deriva autoritaria". E' rimasto solo Berlusconi a sostenere questa pagliacciata. Se la riforma passasse non si conterebbero nemmeno, tra le democrazie rappresentative, quelle in cui il governo ha più poteri di quello italiano. 

Quarta obiezione del NO: "i senatori non vengono scelti dai cittadini". Anche qui c'è da sorridere. In primo luogo una camera di nomina non è una novità tra le democrazie occidentali. Il Bundersrat tedesco viene di fatto nominato dai Land, il Senato belga è parzialmente nominato. No, non è rilevante il fatto il primo sia un sistema federale, non c'è nessuna ragione logico-deduttiva per cui in un sistema federale puro si possa nominare e in un ibrido o Stato centralista (come si realizzerebbe in Italia se la riforma passasse) si debba per forza eleggere. Altrove non ha creato polemiche sull'antidemocraticità, non sono nati né nuovi Hitler né nuovi Stalin.
Senza contare che la legge elettorale per il Senato non esiste ancora. Si dovrà fare - per forza - a riforma eventualmente approvata.


Considerazioni generali sulla riforma. È perfetta? Tutt'altro. Nota negativa, l'aumento di poteri della Corte Costituzionale che potrebbe dare qualche noia in più sui lavori parlamentari, occasione mancata l'impossibilità di aumentare i poteri del premier, l'assenza di vincolo di mandato.
È un miglioramento? Sì, per i motivi che ho spiegato in tutto questo articolo. I parlamentari - continuerò ad insistere su questo punto - vengono pagati anche con i miei soldi. Non ho intenzione di non vincolarli a nessuna regola come hanno avuto il potere di fare negli ultimi Settant'anni.
Rivoluzionerà la politica italiana? Purtroppo no, ma non vedo alcuna ragione logica per rifiutare dei miglioramenti solo per questo. La riforma radicale è stata proposta più volte, nel 1997 da D'Alema (ed è naufragata per colpa di Berlusconi), nel 2005 da Berlusconi naufragando per il voto popolare. Aspettare in eterno un cambiamento radicale, esattamente come la classe politica di santi o il genio politico in grado di tenere in scacco un sistema tanto pasticciato (praticamente impossibile, e la dimostrazione è che anche giganti come De Gasperi e Craxi non ce l'hanno fatta, nonostante i loro miracoli) non è sano né utile a nessuno.

Il sottoscritto straccerebbe la Costituzione e la riscriverebbe da capo, ma questo si è rivelato - nei fatti - impossibile, come i "dirigenti santi" che "se vogliono votano e lavorano". E chi ha proposto la riforma "limitandosi" nelle caratteristiche, ha senz'altro fatto un ragionamento di questo tipo, ben conscio che qualsiasi legge più "netta" non avrebbe superato nemmeno il parlamento. Aprire un dibattito su una questione assolutamente tabu (i rapporti tra governo e parlamento) sarebbe vitale e non è affatto da escludere - come dice qualcuno - che impedirà un processo riformatore anche negli anni a venire. Dire di NO bloccherà, con certezza, tutto per almeno 10 anni (stando all'ultimo intervallo, ma potrebbe essere ben di più, due bocciature in così poco tempo possono essere traumatiche).

Il cittadino medio non si rende conto - e non può rendersi conto perché non è un politologo, com'è giusto che sia tra l'altro - che migliorare le regole istituzionali gli interessa in prima persona: per costruire una strada senza dover combattere con due presidenze regionali diverse, per attuare una regolamentazione di alcune amministrazioni pubbliche, per varare anche un provvedimento sociale, serve semplicità e non ostacoli. Semplicità in grado di far lavorare anche la persona normale, e non soltanto un supposto genio politico. Che può essere sempre discussa e mandata a casa alle elezioni.

C'è tanta, troppa gente che confonde l'ostilità al governo Renzi e alle sue politiche sistemiche con le regole del gioco: non c'entrano niente l'una con le altre. Io posso desiderare che Renzi cada domani mattina ma che se, per miracolo, una forza sovranista possa arrivare a Palazzo Chigi, sia in grado di governare e di fare qualcosa di più anziché il nulla.

È un punto che non capiscono minimamente tutte le forze di opposizione, da Salvini alla Meloni. Presi del giogo della competizione democratica (un vero cancro metodologico che spinge ad abbassare il livello delle riflessioni per "ragionare" sull'immediato e mai in prospettiva) non comprendono che se non dovessero vincere alle prossime elezioni ma a quelle successive, si ritroverebbero un sistema più idoneo a farli lavorare. E invece no, si lotta sul minuto dopo. Per far cadere Renzi e - magari - andare al governo con lo stesso sistema impossibile che ci tiene bloccati da 70 anni.

Come la Monarchia del NO impone.


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