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A Walt Disney Silly Symphony!

sabato 8 ottobre 2016

Spicchi d'Immortalità griffati Kojima



Un anno fa oggi ero pienamente addentrato nel pieno del deserto dell'Afghanistan, guidando Big Boss nelle sue missioni tra le distese di sabbia e steppa, durante l'occupazione sovietica del Paese negli anni Ottanta. Il soggetto partiva con i migliori auspici, vista l'ambientazione storica e l'interesse che giocoforza spinge il sottoscritto ad andare "oltre".

Per chi come me è grande appassionato di videogiochi, l'ultimo lavoro di Hideo Kojima è stato qualcosa di realmente sconvolgente. Non tanto per la maestosità del progetto in termini economici, considerata la lavorazione e tutto il resto, ma per il risultato ludico al quale, dobbiamo essere onesti, Kojima stesso non ci aveva mai abituato.

I suoi titoli, forse ad eccezione del primo Metal Gear Solid (1998) e dei precedenti in 2d, si sono sempre focalizzati enormemente sull'elemento "cinematografico", curando molto poco quello strettamente giocoso. Dei film spesso "giocati molto male", per dirla in termini semplici.

Del primo Metal Gear Solid ricordo molte soluzioni ludiche interessanti e un sistema di controllo pessimo ma per l'epoca accettabile. Dei seguiti ricordo invece solo pochissima giocabilità, la scomodità e tanti filmati (spesso noiosi, diciamo pure la verità). Dal quarto capitolo su PS3 si è visto un nuovo interesse per la componente "gioco", ma l'impronta era comunque tradizionale rispetto alla serie.

E poi, il miracolo, la sorpresa, la meraviglia: Phantom Pain. Stealth vero, intelligenza artificiale dei nemici credibile e bilanciata (anche se, ovviamente, commisurata alla dimensione giocosa: chi pensa che un nemico debba avere la stessa sensibilità visiva che nel reale non desidera un gioco, ma un lavoro che non sarebbe nemmeno troppo divertente, almeno per il sottoscritto), una varietà infinita di possibilità di affrontare le varie missioni negli accampamenti sovietici, nel deserto, nei villaggi afghani (poi africani e via discorrendo). 

Ma soprattutto una sottospecie di open world altrettanto bilanciato e vivo nella componente esplorativa, limitato quanto basta per non essere dispersivo ma sempre interessante. Le cavalcate verso l'orizzonte, verso un nuovo villaggio, una base, un aeroporto, e la possiblità di affrontarle ed esplorarle a piacimento, senza limiti, in piena libertà.

Per raggiungere un obiettivo, che fosse un ostaggio, un oggetto, una persona da eliminare, si poteva davvero fare di tutto: entrare in "modalità Rambo" ed affrontare da solo tutti i soldati nemici, strisciare quatto quatto ed eliminarli silenziosamente uno ad uno, passare inosservato senza lasciare nemmeno un cadavere. Insomma, tutto sul serio. Sotto certi aspetti, una rivoluzione.

Rivoluzione impensabile, ripeto, pensando a chi l'ha generata: un "regista mancato" come lo hanno definito in tanti, Kojima. Che d'improvviso si sveglia e fa un gioco. E non un gioco qualsiasi, ma uno dei migliori degli ultimi 20 anni.

Perché in Phantom Pain ci sono spicchi d'immortalità. Forse dovuta al fatto che il suo autore sapeva già da qualche anno di essere vicino al licenziamento da Konami, forse una risposta alle critiche che, nonostante il successo commerciale, non sono mai mancate tra una fetta "di nicchia" di videogiocatori.

Ciò che voglio dire è che sembra davvero una dimostrazione di forza, una specie di sfogo, una risposta.

Vallo a sapere. Certo è che la storia ci ha consegnato una delle più grandi esperienze virtuali possibili. E chissà che non sia una svolta senza ritorno anche per lo stesso Kojima, con il suo nuovo studio di produzione e i suoi futuri progetti. Auguri.










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