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A Walt Disney Silly Symphony!

venerdì 23 dicembre 2016

Nichilismo e odio per la vita: ecco cosa è stato quell'Attimo Fuggente



Ho riguardato, come avviene ogni tanto, L'attimo fuggente di Peter Weir, anno 1989.  La mia mente ha stampato con passione il trailer che passavano in televisione quando ero bambino, e ricordo che, senza essere falsamente revisionisti, da ragazzo mi piacque molto.
Posso anche ammetterlo: mi piace tutt'ora. Sono sempre stato molto attento a scindere il gusto di un film dai valori che propone: se così non fosse, probabilmente dovrei rinunciare ad una delle mie grandi passioni, indi a guardare il 90% delle pellicole che vengono proposte che siano di mio interesse. Forse qualcosa di meno, ma siamo lì.

All'epoca il film interpretato da Robin Williams ottenne una pioggia di consensi, non solo rappresentati dai quattro Oscar, ma anche da una diffusa patina messianico-educativa a rimarcare il suo messaggio, improntato sulla semplificazione e banalizzazione estrema del concetto latino di carpe diem, del godere la vita appieno, del non studiare la letteratura seguendo rigidi schemi matematici, nella pretesa di verità che dei ragazzi di liceo dovrebbero possedere in barba a qualsiasi principio di aurorità genitoriale, considerata a priori insensibile, incapace di comprendere, a differenza di un giovane protagonista che, tra i tanti presenti nella classe di allievi del Professor Keating (Robin Williams, appunto), sogna di fare l'attore ed è già pienamente e incredibilmente consapevole, esattamente come il suo insegnante, che sarà la strada della sua vita.

Dopo 27 anni di rilevazioni critiche su questi temi ce ne sono ancora pochissime: qualche blog isolato come il mio, ma, sorprendentemente, anche Christian Raimo su Internazionale. Personalmente, non ho letto altro.

L'aura di insindacabilità del messaggio del film, di quell'inno alla libertà e alle piene scelte autonome dei giovani, sostanzialmente non è stata toccata. Non solo: professori marchigiani  ne hanno fatto un modello per i loro metodi didattici, dando come compiti per le vacanze ai propri studenti cose del tipo "camminare sulla spiaggia e "sentirsi felici", ballare senza timidezza, rilassarsi.

In ogni caso, dei due articoli che rilevano il messaggio profondamente diseducativo del film di Weir, mi sento di condividere più o meno tutto. La famosa scena dello "strappo" del libro di analisi logica mi riporta alla mente - similmente a quanto avviene per Raimo - l'importanza della stessa nella mia vita di alunno, la costrizione con cui la facevo e anche il sacrificio dello studio, ma soprattutto ciò che mi ha lasciato dopo: bagaglio, tecnica, capacità di sintesi. Mentalità e metodo.

Questo perché, banalmente, ho recepito negli anni ciò che studiavo - senza necessariamente apprezzarlo o divertirmici mentre lo studiavo - e l'ho sviluppato, in certi casi, anni dopo. Fanno eccezione la passione per la storia e la filosofia, grosso modo sempre prepotenti in me anche se esplose realmente soltanto negli ultimi tre anni di liceo, grazie ad un professore che faceva dell'arte oratoria una sua qualità talmente seducente da riuscire a rendere interessante la materia anche ai più asini.

Mio padre da ragazzino mi insegnò il latino e lo spagnolo. Detestavo la sua imposizione e litigammo diverse volte a proposito. Negli anni è stato il più grande tesoro che mi sono portato dietro, dovendogli una gratitudine che non sono mai riuscito ad esprimergli quando era in vita.

Prima accennavo alla storia di Neil, il ragazzo appassionato di teatro incoraggiato dal professor Keating a dire al padre, contrario alla sua attività e già deciso a fargli intraprendere la carriera di medico, "ciò che sente". Neil continua a fare di testa sua e, ovviamente colto sul fatto dal padre, verrà portato via dalla sua passione e condotto verso la strada per lui già decisa. La risposta di Neil, benedetta dal "messaggio edificante" del film, è quella di uccidersi.

Ammesso e non concesso che nel mondo reale un ragazzo adolescente possa già sapere con certezza che "recitare è tutto per me" (cosa indubbiamente possibile, sebbene molto rara) non ci vuole un genio per capire che la vita reale sia qualcosa di molto diverso dalla storia dello sfortunato in questione. È fatta, in caso di completa ostilità con un genitore, di anni di lotte o di anni di sottomissione, ma non certo dell'autoprivazione della vita come ciò che fa Neil, in questo perfetto rappresentante della cultura della morte che permea gran parte della società contemporanea che viviamo ancora oggi. Ed è fatta, nel caso in cui il genitore abbia ragione - cosa che il film esclude praticamente a priori - anche del potere di consiglio e di indirizzo di quest'ultimo, che non nasce, contrariamente a ciò che ci insegnano da troppi anni, per assecondare il volere e il desiderio dei figli sempre e comunque.

"Le cose non vanno come vorrei, tanto vale farla finita". Somiglia tanto alla cultura dell'aborto e dell'eutanasia, di quel "non si può crescere, tanto vale non far nascere" o "non si può curare, tanto vale morire". Quella idea malsana che rinuncia a comprendere la più banale delle verità: che non sappiamo cosa ci attende e non possiamo in nessun modo prevederlo. Un figlio non aspettato o non voluto può essere una gioia, esattamente come può esserlo un figlio dato in adozione: nulla può escludere un'esistenza o anche solo un momento di felicità a nessuno. Anche per un figlio il cui padre ostacola la "certezza di voler recitare".

Chi scrive non parla per sentito dire o per supponenza, ma per amara esperienza: lo fa perché sa cosa vuol dire essere "malati di fretta", del volere tutto e subito, e di rammaricarsi, con gli anni, di non aver saputo attendere. Lo fa perché è stato tra le vittime di questa maleducazione etica, contraria alla vita prima ancora che allo spirito dell'uomo.

L'attimo fuggente è figlio della cultura della libertà estrema. Quella che maledice la Riforma Gentile in casa nostra e non si rende conto quanto abbia contribuito a produrre generazioni di professionisti di livello assoluto, nello stesso insegnamento come nella politica. Di contro, i risultati dei cambiamenti avvenuti negli anni Sessanta (non solo in Italia, ma in tutto l'Occidente) hanno prodotto generazioni enormemente più mediocri, con la differenza che nessuno si chiede il perché, mantenendo però la saccenza di chi pretende pure di essere nel giusto.

Ma forse, in quel caso, si rimedia a tutto pensando che Gentile era fascista, quella semplificazione che serve ad assolvere tutto, anche il peggiore dei crimini pedagogici.

È una generazione, quella della libertà e dell'abolizione di metodo e regole, che ha perso su tutta la linea rispetto alla precedente. Ma nonostante ciò, insiste nelle sue nefandezze. Per fortuna non ci sono molti professor Keating in giro: probabilmente in quello il messaggio del film, pur nell'esempio estremamente negativo perpetrato, è troppo irrealistico per poter essere tradotto in realtà. Ripeto: per fortuna.







giovedì 22 dicembre 2016

Un Presepe per dire, nonostante tutto: "Buon Natale, Italia"


Breve favola sul presepe.

La più antica visione pittorica dello stesso risale addirittura all'Impero romano, grosso modo al III secolo d.C. quando iniziò ad essere rappresentata la nativitità. 
Poi, tanti centenari dopo, è San Francesco d'Assisi a rappresentare solidamente, nel rietino e nell'Italia centrale del XIII secolo, una mangiatoia con degli animali in una grotta, nonché la pastorizia di Betlemme (mancavano Gesù, Giuseppe e Maria).

Nel Quattrocento, il presepe si diffondeva verso Nord, nell'Emilia. Nel secolo successivo il Regno di Napoli avrebbe accolto la tradizione e l'avrebbe diffusa nel Sud. 
L'ultimo grosso sviluppo è del Settecento, quando si diffondono quasi contemporaneamente le tradizioni napoletane, bolognesi e genovesi. 

Dedicata a tutti quelli che "l'Italia non esiste" o "esiste dal 1860". 

Il presepe, così come tanti altri fenomeni culturali, ha creato la Nazione secoli prima che ci fosse lo Stato. Con una particolare concentrazione di diffusione proprio nel periodo in cui nella pittura Caravaggio faceva scuola anche a Napoli, lasciando la strada ad eredi meridionali come i Salvator Rosa e i Luca Giordano, che avrebbero dipinto anche a Roma, Firenze e Milano.

Il presepe forse è la più genuina di queste formazioni culturali spontanee della nostra storia. 

Perché non è la classica arte italiana di quella élite unitaria che andrebbe comunque rispettata e glorificata ogni giorno per quanto ha prodotto nei secoli successivi al 476 d.C. È un'arte che, prima di arrivare nelle case di tutti, veniva realizzata da tutti, proprio da quel popolo diviso per circa 1500 anni che oggi rischia di estinguersi, come altri in questo Occidente disastrato. Lo sta facendo anche perché sta smarrendo il significato di queste tradizioni, di cui non si cura o peggio non si interessa.

Auguri, Italia.

mercoledì 30 novembre 2016

Immaginazioni meravigliose o nichiliste? Il dilemma di un'epoca

Dopo averlo letto per intero in una manciata di ore, mi sento davvero di fare i complimenti all'amico e collega David Nieri per questa idea semplice, ma allo stesso tempo profonda e squisitamente analitica, su un argomento sul quale si inizia a dibattere solo da qualche anno. 
Davvero un bel libro considerata anche la scorrevolezza dello stile e l'approccio immediato che lo rendono fruibile a chiunque. 

Il tema di Imagine di John Lennon è stato molto discusso negli ultimi anni, soprattutto dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2016. David ne aveva già parlato nel 2010, in una versione precedente di questo testo, intitolata Imagine - Storie da un sogno infinito
A dimostrazione di una sensibilità che, pur ben evidenziata nel testo, qualcuno avrebbe potuto recepire come "di risposta" al terrorismo e al pianoforte messo lì, fuori ad uno dei luoghi di quella strage, il teatro Bataclan, per suonare il pezzo di Lennon, rivendicato come l'inno del mondialismo, che pone la sua effige globalizzatrice e pacifista.

In questo breve trafiletto mi permetto di ricordare solo una cosa: quanto uno stesso fenomeno, guardato in due archi temporali diversi, renda particolarmente immediata la comprensione di certe dinamiche, se si vuole ascoltare e se si ha voglia di approfondire.

Questo libro ci riesce, partendo da un approccio che, con il facile "senno del poi" potrebbe sembrare scontato. Ma è quella scontatezza avvertita da chi avrebbe desiderato avere la stessa idea, senza nei fatti riuscirci. 

Un viaggio dove storia della musica contemporanea ed eventi politici si intrecciano rivelando tutta la loro complementarità, dove i fondamenti dell'oggi rivelano la loro origine nelle rivoluzioni di ieri. Che sia un fallimento o un successo non sta a me dirlo, per lo meno in questa sede. Quello che posso fare è invitare tutti alla lettura.


giovedì 24 novembre 2016

Il "Sì" e lo spettro della Monarchia del "NO"



Anzitutto una premessa piuttosto lunga, di natura tecnica ed antropologica. Il sistema che viviamo al gennaio del 1948 è una struttura costituzionale di tipo parlamentare che garantisce un'uguaglianza totale (o quasi) dei quadri dirigenti, leggasi un impianto gerarchico pressoché inesistente nell'ambito parlamentare e governativo. Un meccanismo che attribuisce a 945 deputati e senatori poteri a tutti gli effetti non così inferiori a quelli di un ministro della Repubblica o di uno stesso capo del governo, nella diversità delle funzioni, e - numeri alla mano - superiori a quelli di un presidente della Repubblica. Il capo del governo non può scogliere le camere, non può nominare ministri ma solo proporli, è vincolato alla fiducia di due camere che fanno le stesse ed identiche cose.

Ne deriva un'autonomia di azione che si può estrinsecare in capacità di ricatto, di spinta al compromesso e di veto elevatissima per ogni gruppo parlamentare. Tutte prerogative che esistono a prescindere dalla legge elettorale vigente. Che si tratti di un proporzionale puro, di un maggioritario, di un Mattarellum, Porcellum o il recente Italicum, il singolo parlamentare ha il potere di prolungare le discussioni in aula in eterno e di chiedere garanzie e compromessi al governo, senza che nessuno glielo possa impedire.

La prima deduzione antropologica sta in quanto segue: non esiste possibilità, per chiunque emerga in questo quadro immobile, di poter esprimere un progetto costruttivo che possa svolgere passaggi importanti. E non perché gli italiani siano cattivi mentre nel resto del mondo siano tutti buoni, ma perché la legge (in questo caso la Costituzione) permette di dare "libero sfogo" alle tendenze umane. In misura diversa, è come se domani mattina venisse legalizzato il furto. Si potrebbe senz'altro sostenere che per non rubare basti non volerlo, ma nessuno si sognerebbe mai di depenalizzare l'appropriazione indebita di soldi o beni altrui, perché è ben nota la possibilità che l'uomo svolga un'attività di questo tipo, anche se non in senso assoluto ed universalistico. Esattamente come oggi si sostiene che "se la politica vuole lavora e fa le leggi". Certo, potrebbe. Ma le regole servono per obbligare e tenere sotto controllo le devianze.

Il fatto che in Italia (e solo in Italia, visto negli altri 28 paesi europei vige un sistema unicamerale o al massimo bicamerale con due funzioni diverse) i due rami del Parlamento abbiano le stesse caratteristiche è assolutamente a tutela di una libertà dell'individuo di svolgere la propria funzione di deputato o di senatore sviluppando questo potere di ricatto e compromesso, che sia in un piccolo gruppo o in un grande partito rappresentato a Montecitorio e Palazzo Madama.

Gli altri sistemi istituzionali occidentali qualche "regola" ce l'hanno, visto che di fatto obbligano una delle due parti o a "fare altro" o all'inesistenza, in favore di una maggiore scorrevolezza del sistema e di un lavoro comunque stipendiato da tutti i cittadini (che siamo noi).

La seconda deduzione antropologica sta in quanto segue: non abbiamo dati, ma credere che su circa 1000 politici di vertice su scala nazionale non ne esista nemmeno uno con qualche buona idea e con la voglia di migliorare la parossistica vita dei propri cittadini è quanto meno azzardato, anche solo per una questione di grandi numeri. Non abbiamo gli strumenti per poterlo verificare però, dal momento che ogni qualvolta nasca una minima proposta tendente al miglioramento (reale o presunto), questa viene inghiottita nel marasma della parità di privilegi di deputati, senatori e di tutto il quadro istituzionale nazionale.

La terza e ultima deduzione antropologica non può che sottolineare il progressivo inacidirsi del cittadino medio verso la classe politica, a piena ragione tra l'altro, ma nella "inconsapevolezza media" di questo stato di cose cancerogeno. È aprioristico che l'italiano medio pensi che qualsiasi nuovo esponente della classe dirigente non farà i suoi interessi né quelli del Paese, ma sempre i propri personali, in un quadro di sfiducia che si alimenta giorno dopo giorno. Il problema è che l'italiano medio, giustamente dal suo punto di vista (non certo quello di un fine politologo o di un analista, ruoli che non è tenuto a dover recitare) si concentra sull'effetto di questo sistema e non sulle cause. Ulteriore e gravissima conseguenza, ogni qualvolta la politica esprime esponenti di un certo taglio, questi saranno in breve massacrati da una critica giornalistica che sostanzialmente "vive di questo" e che costruirà attorno ad essi la stessa immagine negativa dei loro predecessori, bloccando qualsiasi processo virtuoso teso, per lo meno, a dare fiducia al proprio operato e, semmai, giudicarlo dopo.



Dopo qualche anno possono scattare rivalutazioni parziali o monche, a seconda dei casi. Ma in una fase in cui tutto ciò è ormai inutile, visto che l'esponente politico non è più al "potere" (parola grossa se si pensa al capo del governo italiano) e che, quando c'è stato, si è fatto di tutto per ostacolarlo. Un atteggiamento che si è palesato già agli inizi della Prima Repubblica, quando Alcide De Gasperi, ben consapevole del pasticcio istituzionale che si era creato nell'elaborazione della Costituzione, nel 1953 varò la legge elettorale che, con enorme malafede, la storia ancora oggi ricorda come "truffa". Il motivo di questo epiteto? Il solito, propagandistico e ben poco sostanziale, la "deriva autoritaria" che si dichiara ogni qualvolta si proponga una legge in grado di garantire maggioranze parlamentari un po' più forti al vincitore delle elezioni, essenziali per potergli permettere di svolgere il proprio lavoro (comunque fino ad un certo punto, perché, come spiegato sopra, nel sistema italiano avere una maggioranza forte non dà alcuna garanzia di fare tutto ciò che si pare: 600 parlamentari a proprio favore non votano sì come dei robot, ma chiedono ulteriori compromessi in cambio del proprio voto).



È un atteggiamento contro cui ha dovuto combattere anche uno statista di grande livello - forse l'ultimo che la storia abbia decretato come tale, in Italia - come Bettino Craxi, il quale con un autentico capolavoro politico e un partito con circa il 10% dei voti, è riuscito a diventare presidente del Consiglio e a governare per ben cinque anni, dal 1983 al 1987, seppur in due governi diversi. Per motivi completamente diversi, è capitato anche a Silvio Berlusconi, azzannato anche quando ha proposto delle riforme di assoluto rilievo (come quella Costituzionale del 2005) o promosso una politica estera conciliante verso la Russia, e le potenze regionali arabe (oggi anche molti suoi detrattori di allora dicono "beh, forse aveva ragione"). 


I grassettati dei tre presidenti del Consiglio citati non sono casuali, visto che sono quelli che hanno governato di più nella storia della Repubblica: 5 anni De Gasperi, 5 anni Craxi, 9 anni (in tre esecutivi) Berlusconi. Tutto il resto? Meteore senza possibilità di programmazione. 63 governi in 70 anni, e il massimo storico a parte questo "trio" è di un paio di anni circa a Palazzo Chigi. Si torni alla prima deduzione antropologica di cui sopra: il furto può essere legalizzato domani, e si può senz'altro sostenere che la politica, se vuole, può mettersi d'accordo e non far cadere i governi. Ma tutto ciò è incompatibile con la natura umana, ed è del tutto naturale che ci sia la legge a disciplinarne i limiti.

Cosa propone questa riforma istituzionale? Tre cose, molto semplici. La fine di questo maledettissimo bicameralismo perfetto e la doppia fiducia, regole più sicure per i parlamentari che lavorano con i nostri soldi e che oggi fanno tutto ciò che gli pare (voto a data certa, differenza di funzioni), ritorno allo Stato di materie esclusive come l'energia, le infrastrutture e il commercio con l'estero, riduzione del numero di parlamentari.

Sulla prima: il Senato non voterà il 95% delle volte e sarà tenuto a votare a data certa le leggi. Su 5 leggi all'anno (come quelle di Stabilità e bilancio) il famoso "ping pong" rimarrà. È poco, è molto, è qualcosa? Direi che "è qualcosa" dal momento che - mi preme molto questo punto - i parlamentari non sono lì in vacanza, ma a svolgere un lavoro stipendiato dalle mie (e vostre) tasse.

Sulla seconda: lo Stato riprende centralità per delle funzioni che sono state il vero incubo di tutti i governi che si sono succeduti dal 2001 ad oggi. Si deve costruire un'autostrada? Devi mettere d'accordo due regioni che, con regimi diversi, disciplinano la materia. Si deve fare un piano energetico? Impossibile, praticamente, su scala nazionale, a meno che 21 apparati non si mettano d'accordo in tutto (ancora la prima deduzione antropologica contro il "se si vuole si può" senza porre mai una domanda fatidica: ma se non si vuole da sempre, cosa facciamo? Ne vogliamo prendere atto e stabilire delle regole uguali per tutti, o dobbiamo continuare con questa manfrina per l'eternità?).

Sulla terza: siamo il parlamento più numeroso e costoso al mondo. Sono tutti stupidi altrove (esattamente come per il bicameralismo differenziato o l'unicameralismo) o siamo noi a costituire un'anomalia? Per carità, il risparmio dei costi non è un'argomentazione decisiva, ma roba utile ai grillini che credono davvero che i costi della politica abbiano un peso in un "fatturato" come quello statale che conta decine di miliardi di euro.

Passiamo, in ordine sparso, alle obiezioni del NO.

La prima sostiene che, il nuovo Senato "ci consegna all'Unione Europea e diminuisce ulteriormente la nostra sovranità nazionale". Il motivo? La parola "Unione Europea" citata nel nuovo articolo 117 della Costituzione. Per semplicità, linko anche l'attuale articolo 117
Secondo gli scandalizzati del NO, la parola Unione Europea sulla prima frase generica riguardante il Senato consegnerebbe sovranità a Bruxelles. Dati e scritture alla mano, è falso. Mettendo le due versioni del testo fianco a fianco, nel nuovo articolo è testualmente precisato:

"La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea e dagli obblighi internazionali."

Nell'attuale versione è precisato:

"La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali."

Viene sostituito "ordinamento comunitario" con "Unione Europea", due espressioni a tutti gli effetti sinonime. L'Unione Europea È un ordinamento comunitario, e la differenza (o meglio l'identità spacciata per differenza) è esclusivamente terminologica.  
Per gli appassionati delle espressioni europeiste: se mettiamo di fianco a fianco le prerogative di esclusiva competenza dello Stato elencate nell'articolo poi, non c'è alcun accenno all'Unione Europea.
Le competenze nei due articoli sono esattamente le stesse. Cambiano gli ultimi tre punti (monopolio energetico, commercio con l'estero, infrastrutture) che peraltro rappresentano un ritorno al "pre-2001" quando erano di competenza dello Stato centrale.
Chi scrive è un sovranista convinto, ostile all'UE come alla NATO. Ma il 4 dicembre non andiamo a votare sulla nostra sovranità: quella l'abbiamo persa nel 1948 e, se la recupereremo mai, lo faremo a prescindere da questa riforma, che con la sovranità non c'entra niente e chi l'ha tirata in ballo lo ha fatto solo ed esclusivamente per attirare il NO dei sovranisti.

Seconda obiezione del NO: la riforma è scritta male e l'articolo 70 è lunghissimo. Vabbè. L'articolo 70 spiega le funzioni di Camera e Senato. Risulta evidente che, quando doveva descrivere due organi uguali, lo poteva fare in massimo tre righe. Se le funzioni sono diverse, ovviamente le righe diventano molte di più. Se qualcuno constata una differenza con lo stile giuridico di altri articoli o non ha mai letto un testo di diritto o è in malafede. Probabile la prima, del resto non credo proprio che gli italiani leggano tutti la costituzione come se fosse una favoletta di Esopo.

Terza obiezione del NO, che è quella che fa sempre ridere: "deriva autoritaria". E' rimasto solo Berlusconi a sostenere questa pagliacciata. Se la riforma passasse non si conterebbero nemmeno, tra le democrazie rappresentative, quelle in cui il governo ha più poteri di quello italiano. 

Quarta obiezione del NO: "i senatori non vengono scelti dai cittadini". Anche qui c'è da sorridere. In primo luogo una camera di nomina non è una novità tra le democrazie occidentali. Il Bundersrat tedesco viene di fatto nominato dai Land, il Senato belga è parzialmente nominato. No, non è rilevante il fatto il primo sia un sistema federale, non c'è nessuna ragione logico-deduttiva per cui in un sistema federale puro si possa nominare e in un ibrido o Stato centralista (come si realizzerebbe in Italia se la riforma passasse) si debba per forza eleggere. Altrove non ha creato polemiche sull'antidemocraticità, non sono nati né nuovi Hitler né nuovi Stalin.
Senza contare che la legge elettorale per il Senato non esiste ancora. Si dovrà fare - per forza - a riforma eventualmente approvata.


Considerazioni generali sulla riforma. È perfetta? Tutt'altro. Nota negativa, l'aumento di poteri della Corte Costituzionale che potrebbe dare qualche noia in più sui lavori parlamentari, occasione mancata l'impossibilità di aumentare i poteri del premier, l'assenza di vincolo di mandato.
È un miglioramento? Sì, per i motivi che ho spiegato in tutto questo articolo. I parlamentari - continuerò ad insistere su questo punto - vengono pagati anche con i miei soldi. Non ho intenzione di non vincolarli a nessuna regola come hanno avuto il potere di fare negli ultimi Settant'anni.
Rivoluzionerà la politica italiana? Purtroppo no, ma non vedo alcuna ragione logica per rifiutare dei miglioramenti solo per questo. La riforma radicale è stata proposta più volte, nel 1997 da D'Alema (ed è naufragata per colpa di Berlusconi), nel 2005 da Berlusconi naufragando per il voto popolare. Aspettare in eterno un cambiamento radicale, esattamente come la classe politica di santi o il genio politico in grado di tenere in scacco un sistema tanto pasticciato (praticamente impossibile, e la dimostrazione è che anche giganti come De Gasperi e Craxi non ce l'hanno fatta, nonostante i loro miracoli) non è sano né utile a nessuno.

Il sottoscritto straccerebbe la Costituzione e la riscriverebbe da capo, ma questo si è rivelato - nei fatti - impossibile, come i "dirigenti santi" che "se vogliono votano e lavorano". E chi ha proposto la riforma "limitandosi" nelle caratteristiche, ha senz'altro fatto un ragionamento di questo tipo, ben conscio che qualsiasi legge più "netta" non avrebbe superato nemmeno il parlamento. Aprire un dibattito su una questione assolutamente tabu (i rapporti tra governo e parlamento) sarebbe vitale e non è affatto da escludere - come dice qualcuno - che impedirà un processo riformatore anche negli anni a venire. Dire di NO bloccherà, con certezza, tutto per almeno 10 anni (stando all'ultimo intervallo, ma potrebbe essere ben di più, due bocciature in così poco tempo possono essere traumatiche).

Il cittadino medio non si rende conto - e non può rendersi conto perché non è un politologo, com'è giusto che sia tra l'altro - che migliorare le regole istituzionali gli interessa in prima persona: per costruire una strada senza dover combattere con due presidenze regionali diverse, per attuare una regolamentazione di alcune amministrazioni pubbliche, per varare anche un provvedimento sociale, serve semplicità e non ostacoli. Semplicità in grado di far lavorare anche la persona normale, e non soltanto un supposto genio politico. Che può essere sempre discussa e mandata a casa alle elezioni.

C'è tanta, troppa gente che confonde l'ostilità al governo Renzi e alle sue politiche sistemiche con le regole del gioco: non c'entrano niente l'una con le altre. Io posso desiderare che Renzi cada domani mattina ma che se, per miracolo, una forza sovranista possa arrivare a Palazzo Chigi, sia in grado di governare e di fare qualcosa di più anziché il nulla.

È un punto che non capiscono minimamente tutte le forze di opposizione, da Salvini alla Meloni. Presi del giogo della competizione democratica (un vero cancro metodologico che spinge ad abbassare il livello delle riflessioni per "ragionare" sull'immediato e mai in prospettiva) non comprendono che se non dovessero vincere alle prossime elezioni ma a quelle successive, si ritroverebbero un sistema più idoneo a farli lavorare. E invece no, si lotta sul minuto dopo. Per far cadere Renzi e - magari - andare al governo con lo stesso sistema impossibile che ci tiene bloccati da 70 anni.

Come la Monarchia del NO impone.


lunedì 14 novembre 2016

Tre sciocchezze su Donald Trump e le inesistenti differenze con Obama



La campagna elettorale anti-Trump ne ha raccontate talmente tante da rendere impossibile non reagire. A parte il giudizio su pettinature improponibili, adorazione fisica per le donne come una specie di offesa (mentre dall'altra parte c'erano donne pro-Clinton a lanciare regali sessuali come fossero noccioline in cambio del voto) e altre brillantissime e profonde ragioni per le quali il Tycoon sarebbe stato indegno di essere presidente degli USA, si precisa quanto segue:

1. Il "muro di Trump" esiste già, e lo ha costruito un democratico. Tra filo spinato e recinzioni di altro genere, il confine con il Messico è coperto per circa metà tratto, ed è adeguatamente sorvegliato da circa 18.000 guardie. Se in Italia o in qualsiasi Paese europeo qualcuno si permettesse di fare una cosa del genere, sarebbe direttamente aggredito (intendo proprio fisicamente, escludendo le solite stupidissime accuse) come fascista. 

2. Gli irregolari con precedenti penali che vuole espellere Trump non sono, di nuovo, una novità di Trump. Obama ha espulso, durante i suoi anni di governo, circa 2 milioni e mezzo di clandestini. La stessa retorica immigrazionista che subiamo tutti i giorni non è in grado nemmeno di pensare cifre simili. La verità è che, per gli standard americani (e solo per quelli) le cifre di Obama hanno rappresentato un peggioramento. Ma immaginatevi in Italia, un Paese dove non esiste alcun limite, se di colpo arrivasse una regolamentazione "a là Obama". Alé, impazzirebbero tutti. Perché soffrono del solito problema: non conoscono i dati e parlano, come sempre, per apparenze. 

3. L'omofobia di Trump è completamente inventata. Il neo-presidente ha dichiarato "ininfluente" la questione dei matrimoni gay, pur essendosi pronunciato esplicitamente contro l'aborto ed altre meraviglie del pensiero liberal progressista.

Mi sono permesso di essere sintetico, le sciocchezze in realtà sono molte di più. Magari farò una rubrica a puntate. Ciao!

domenica 13 novembre 2016

Nove anni fa oggi



Non credo di essere originale rispetto alla media delle persone e non penso che non essere banali, in questa società in cui qualsiasi rapporto umano è basato sul "profitto" (indi anche riguardante la simpatia, la banalità, la ridondanza, eccetera) sia in ogni caso un valore aggiunto. Ma proprio non mi piaceva scrivere qualcosa al "decennale" e mi è sembrato più divertente ricordare qualcosa nove anni dopo.

Nove anni da Super Mario Galaxy, nove anni dall'emozione di un titolo che pareva rompere parecchi schemi già dai video che venivano diffusi online nei mesi precedenti, nove anni da un impatto semplicemente clamoroso che Nintendo non aveva garantito così tanto in quella fase temporale come la sua storia parrebbe raccontare con costanza: sul Gamecube Kyoto aveva fatto la voce grossissima con Metroid Prime, ci aveva provato con Zelda Wind Waker e, soprattutto, non ci era riuscita con Super Mario Sunshine.

Intendiamoci, la precedente incarnazione dell'idraulico va rivalutata molto negli anni, un gameplay come quello manca oggi nel 90% delle produzioni, ma quel level design ballerino, spesso piatto (tranne alcune eccellenze) non lo aveva fatto entrare nel cuore degli appassionati come altri, a dispetto di un sistema di controllo favoloso e uno spruzzino che avrebbe cambiato tante carte in tavola nell'approccio ludico.

Era il novembre 2007 e con Galaxy tutto fu stupendamente chiaro dal principio. Dalla posa comicissima di "Benvenuto nella Galassia" di Mario, al level design assolutamente fuori di testa, ai primi impatti con Dino Piranha (primo boss del gioco), alla Galassia Ritmata, al i pascoli sferici del Giardin Ventoso e allo splendido accompagnamento musicale. C'era tutto, tanto, troppo. Una miriade di giochi nel gioco, che è quello che noi appassionati vogliamo in fondo.


E lo vogliamo a prescindere dalla nostra crescita. Il sottoscritto oggi ha 35 anni, allora ne aveva 26. Ma se c'è una cosa che è andata crescendo è la noia per tutti i prodotti videoludici a prevalenza "cinematografica" per i quali - non lo nascondo - da ragazzino potevo anche essere affascinato. Oggi non c'è più il tempo materiale di una volta, la passione si è trasformata, si bada alla sostanza molto più che allora.

I filmati e le storie trash che popolano le produzioni possono anche attrarmi, ma un minimo di pretesto per andare avanti ci deve essere. Con Nintendo non ci si è mai posti il problema, e con Mario men che meno. Come dice un vecchio detto, la trama dei videogiochi ha lo stesso valore che nei film porno. Parallelismo perfetto, niente da aggiungere o da obiettare, è sempre stato così.
Il gioco uscì il 16 novembre, era un venerdì. Da anni ordinavo su internet, con Galaxy non lo feci. Lo volevo il giorno d'uscita ma, pur prenotandolo, non riuscii a farlo mio. Lunedì ci fu il vero esordio. L'attesa però rende le cose desiderate più belle. Oggi ce ne accorgiamo molto poco, sommersi come siamo da una quantità di bisogni soddisfatti senza che siano realmente gustati.

Piccola parentesi antropologica a parte, l'impatto fu, come dicevo prima, clamoroso. E commovente. Super Mario Galaxy significò tante cose: la riscossa di una compagnia storica come Nintendo in un momento complicatissimo, il trionfo di un gioco che tagliava i ponti con il passato, l'esplosione definitiva di Yoshikai Koizumi come designer di riferimento della grande N e, forse, anche come erede designato di Shigeru Miyamoto. 



Idee su idee, creatività ai massimi livelli, nessun limite. Mondi sferici e aperti, alcuni sospesi, gravità a go go in vari livelli. Qualcuno obiettò che il salto fosse semplificato, semplice e lineare in un platform dall'aspetto variegato e complesso. Io ho sempre sostenuto che vista la varietà degli approcci e la difficoltà visiva della parte "sferica" del gioco (circa la metà dello stesso), non si potesse fare diversamente per essere immediati, divertenti, perfettamente allineati.
E si ricordano i particolari all'apparenza più insignificanti: come quando, utilizzando la gravità, saltavamo in lungo girando intorno ai piccoli satelliti disseminati nello spazio. O come in un'isola del gioco ci si trovava ad ondeggiare su una liana in modo così fludio e realistico da rimanerci secchi. All'epoca si disse: "l'avessero messa in tutto il gioco".

Roba che non ha prezzo. Lascio come si conviene, con un pezzo di quella splendida colonna sonora orchestrata, uno dei primi. Non perché sia migliore di altri, ma perché, com'è ovvio, è legato a ricordi di spensieratezza e divertimento che una passione come la nostra spesso può regalare. 





sabato 8 ottobre 2016

Spicchi d'Immortalità griffati Kojima



Un anno fa oggi ero pienamente addentrato nel pieno del deserto dell'Afghanistan, guidando Big Boss nelle sue missioni tra le distese di sabbia e steppa, durante l'occupazione sovietica del Paese negli anni Ottanta. Il soggetto partiva con i migliori auspici, vista l'ambientazione storica e l'interesse che giocoforza spinge il sottoscritto ad andare "oltre".

Per chi come me è grande appassionato di videogiochi, l'ultimo lavoro di Hideo Kojima è stato qualcosa di realmente sconvolgente. Non tanto per la maestosità del progetto in termini economici, considerata la lavorazione e tutto il resto, ma per il risultato ludico al quale, dobbiamo essere onesti, Kojima stesso non ci aveva mai abituato.

I suoi titoli, forse ad eccezione del primo Metal Gear Solid (1998) e dei precedenti in 2d, si sono sempre focalizzati enormemente sull'elemento "cinematografico", curando molto poco quello strettamente giocoso. Dei film spesso "giocati molto male", per dirla in termini semplici.

Del primo Metal Gear Solid ricordo molte soluzioni ludiche interessanti e un sistema di controllo pessimo ma per l'epoca accettabile. Dei seguiti ricordo invece solo pochissima giocabilità, la scomodità e tanti filmati (spesso noiosi, diciamo pure la verità). Dal quarto capitolo su PS3 si è visto un nuovo interesse per la componente "gioco", ma l'impronta era comunque tradizionale rispetto alla serie.

E poi, il miracolo, la sorpresa, la meraviglia: Phantom Pain. Stealth vero, intelligenza artificiale dei nemici credibile e bilanciata (anche se, ovviamente, commisurata alla dimensione giocosa: chi pensa che un nemico debba avere la stessa sensibilità visiva che nel reale non desidera un gioco, ma un lavoro che non sarebbe nemmeno troppo divertente, almeno per il sottoscritto), una varietà infinita di possibilità di affrontare le varie missioni negli accampamenti sovietici, nel deserto, nei villaggi afghani (poi africani e via discorrendo). 

Ma soprattutto una sottospecie di open world altrettanto bilanciato e vivo nella componente esplorativa, limitato quanto basta per non essere dispersivo ma sempre interessante. Le cavalcate verso l'orizzonte, verso un nuovo villaggio, una base, un aeroporto, e la possiblità di affrontarle ed esplorarle a piacimento, senza limiti, in piena libertà.

Per raggiungere un obiettivo, che fosse un ostaggio, un oggetto, una persona da eliminare, si poteva davvero fare di tutto: entrare in "modalità Rambo" ed affrontare da solo tutti i soldati nemici, strisciare quatto quatto ed eliminarli silenziosamente uno ad uno, passare inosservato senza lasciare nemmeno un cadavere. Insomma, tutto sul serio. Sotto certi aspetti, una rivoluzione.

Rivoluzione impensabile, ripeto, pensando a chi l'ha generata: un "regista mancato" come lo hanno definito in tanti, Kojima. Che d'improvviso si sveglia e fa un gioco. E non un gioco qualsiasi, ma uno dei migliori degli ultimi 20 anni.

Perché in Phantom Pain ci sono spicchi d'immortalità. Forse dovuta al fatto che il suo autore sapeva già da qualche anno di essere vicino al licenziamento da Konami, forse una risposta alle critiche che, nonostante il successo commerciale, non sono mai mancate tra una fetta "di nicchia" di videogiocatori.

Ciò che voglio dire è che sembra davvero una dimostrazione di forza, una specie di sfogo, una risposta.

Vallo a sapere. Certo è che la storia ci ha consegnato una delle più grandi esperienze virtuali possibili. E chissà che non sia una svolta senza ritorno anche per lo stesso Kojima, con il suo nuovo studio di produzione e i suoi futuri progetti. Auguri.










venerdì 7 ottobre 2016

Quel brutto anatroccolo che ci ricorda sempre il valore delle differenze


Assaporando un dolce venerdì sera, guardavo sullo schermo del mio salotto "Il Brutto Anatroccolo" firmato Disney. Forse la "mia" Sinfonia Allegra per eccellenza. Altamente evocativa e poetica, una riflessione anche sulle differenze ed identità, se vogliamo, quelle che oggi in pochi concepiscono se non urlando al razzismo.

Quello stesso anatroccolo deriso dai suoi "diversi" che viene accolto con amore dalla sua vera famiglia: una visione oggi completamente in via di estinzione. Quando il cigno trova i suoi cari, dà un ultimo sguardo alla sua famiglia adottiva: il risentimento è palpabile (nonché comprensibile) nella espressione, ma lo è anche il sorriso di mamma anatra, che dal proprio punto di vista è tutto sommato felice che il "loro diverso" abbia trovato il proprio posto con i suoi simili. Razzismo, diremmo oggi. Radici, si direbbe allora. Perché rispettare e non odiare altri popoli, razze o creature non significa tendere alla distruzione delle proprie caratteristiche, qualsiasi esse siano.



Sulle Sinfonie, comunque, ci sarebbe sul serio da scrivere un libro. Il contributo alla musica contemporanea che hanno dato - tralasciando quello all'animazione semplicemente fuori scala - è molto sottovalutato per i soliti e ben noti storici motivi. 


Walt "scrisse e pubblicò" il suo Fantasia nel 1940, ma le 75 Sinfonie possono essere considerate a tutti gli effetti come un gigantesco predecessore, a puntate, scandagliate per anno. Un predecessore diverso, più vicino a Lo scrigno delle sette perle (1948) che non al "concerto filmato" di Disney e Stokowski, ma in ogni caso un progenitore importante non solo per i disegni animati sul grande schermo ma per tutta l'arte contemporanea.


martedì 16 febbraio 2016

Addio Piero, baluardo dell'indipendenza intellettuale


Di Piero Buscaroli, che ci crediate o no, ho ricordi addirittura personali, familiari. Di lui ho letto l'ultimo libro, Dalla parte dei vinti, dove ripercorre decenni di storia del XX secolo alla luce di un solo comune denominatore: la libertà. 
Di quel libro ricordo le critiche a Mussolini, la grande diatriba con Dino Grandi, la fragile riappacificazione, la difesa strenua di Salazar, il dittatore da wikipedia che se avesse fatto parte di fronti popolari sarebbe sicuramente stato etichettato con il classico "politico" (appellativo di cui sono meritevoli tutti, tranne il caro baffo Stalin).
Ricordo telefonate antiche nello studio di mio padre, da bimbo che passeggiava per i corridoi, che giocava e che ancora non si interessava di storia. 
Ricordo le chiacchierate di politica che mio padre riportava a cena, ammirandone la cultura musicale e l'orecchio che, forse, lui non aveva mai avuto.
Ricordo quanto si trattasse di una sfida tra dotti, latinisti, musicologi e grecisti tutte le volte che veniva fuori un dibattito a riguardo.
Ricordo la storia del Secolo d'Italia, fatto di tanti uomini per bene che piansero in quel dì di Fiuggi e che tornarono con tanta tristezza all'abbraccio delle loro famiglie. Tra loro c'era il professor Gabriele Fergola.
Non ho mai avuto modo di parlare al dottor Buscaroli di argomenti seri, ma non posso non relazionarlo alla mia infanzia e a mio padre stesso.

Ciao Piero.

venerdì 29 gennaio 2016

Benigni l'incoerente: storie radical



"Caso Benigni-Costituzione". Per lo meno, seguendo il teatrale radical chic, nonchè politicamente correttissimo, Andrea Scanzi, giornalista per hobby che riscuote un notevole successo. Il nodo è la dichiarazione del comico toscano che, l'altro ieri, ha affermato di essere favorevole alla riforma del Senato e del titolo V della Costituzione.

Il pensiero corre alla doppia serata (17 e 18 dicembre 2012) in cui Benigni presentò al pubblico un monologo sulla carta dal titolo eloquente La più bella del mondo.
Un monologo piuttosto banale (decisamente inferiore, nell'opinione di chi scrive, a I Dieci comandamenti, trasmesso nel Natale 2014) in cui il comico toscano si dilettava in sperticati elogi della nostra legge fondamentale, facendo riferimento al titolo piuttosto esplicito.

In conseguenza di questo ricordo, piuttosto sbiadito nei lettori, ma probabilmente molto lucido in qualcun altro, si attacca oggi Benigni per la sua affermazione, e sono partite sul web le varie scomuniche: dal "Roberto, ti ho voluto bene, [...] ma siamo al satirico che si fa mesto turibolo del Potere" (citazione dal Maestro Scanzi), al "Benigni, ma non dicevi che era la più bella del mondo?" che imperversa nelle solite immagini meme sui social.
Ora, evidentemente, oltre ai ricordi, sono anche le conoscenze della nostra carta costituzionale che mancano agli italiani e, in generale, ai cittadini comuni di qualsiasi Stato.

La gente non è nata per esercitare un ruolo giurisdizionale, e a ben vedere non è nemmeno giusto che lo faccia, al di là di tutte le frasi retoriche su quanto dovrebbe essere responsabile un popolo in materie così specifiche. Sicuramente l'ignoranza in Italia ha raggiunto livelli di guardia preoccupanti, ma è perfino banale che non si possa chiedere a tutti di interessarsi di diritto costituzionale.

E' quindi proprio del popolino che si approfittano intellettualoidi di varia specie (incluso lo stesso Benigni, sia chiaro), in generale conservatori che, forti del loro ruolo mediatico e talvolta accademico, ingannano apertamente le masse.
Non si spiegherebbero altrimenti le barricate per la riforma del 2005 votata dal governo Berlusconi e presentata come una forma di autoritarismo quasi sanguinario (mentre in realtà non conferiva al governo più poteri di quanti non ce ne fossero in tutte le altre costituzioni occidentali democratiche), nè si spiega come, in questo caso, e per una riforma ben più modesta come quella appena votata nel ddl Boschi, esponenti delle opposizioni gridino alla dittatura, ma anche come Gianni Ferrara, professore emerito di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, si sia quasi stracciato le vesti parlando di "mutilazione della democrazia" e della "necessità di fermare l'eversione autoritaria".
Passiamo al cuore della questione, ossia la carta italiana. Prescindendo dal giudizio negativo che si può dare del più colossale pasticcio istituzionale mai creato in preda a contestualizzazioni storiche folli (leggi, la fine del fascismo), la nostra Costituzione è composta di 139 articoli: i primi dodici enunciano i principi fondamentali, mentre arrivati al numero 54 si comincia a parlare di diritti e doveri dei cittadini. La sezione che riguarda la riforma del Senato viene dopo, per la precisione nel Titolo I della seconda parte, mentre le modifiche che si vogliono introdurre al rapporto tra Stato e Regioni riguarderanno il famoso Titolo V, quindi ancora più "in giù".

Questa riflessione non è una difesa di Benigni di cui non sono neanche un estimatore (anzi) ma della realtà contro le solite ipocrisie: il comico toscano non ha mai detto, nello spettacolo di due puntate andate in onda sulla Rai tre anni fa, che non approvava un cambiamento della seconda parte della Costituzione. Anzi, il monologo iniziava, oltre che con i soliti sperticati elogi della carta, anche con un "Certo che si può cambiare, ma magari la seconda parte, la prima non si discute" e con una lettura successiva dei principi fondamentali, fermandosi quindi ai primi 12 articoli.

Il vero problema è che signorotti dello status quo e del click facile come Scanzi, così come tutti quelli che vogliono prendere per il naso gli italiani su una questione cruciale di cui evidentemente in pochi conoscono l'importanza ("non si mangia con le riforme" pluricit.), puntano su una sostanziale ovvietà, ossia la conoscenza pressochè nulla della carta stessa: è facile, quindi, gridare all'incoerenza contro un esponente fondamentale della cultura di massa che mai si vorrebbe perdere tra le fila degli oppositori, facile gridare alla dittatura, facile gridare agli allarmi antidemocratici. Come da tradizione conservatrice: di cui Benigni ha fatto parte, è bene dirlo per onore della verità, fino all'altro ieri, quando al potere c'era Silvio Berlusconi.

mercoledì 13 gennaio 2016

Buttafuoco e la scelta islamica: scimmiottamento radical chic, ma non solo

Lo spunto è questo interessantissimo articolo, firmato dal bravo Francesco Latiano, collega della popolare pagina facebook e sito web La via culturale al socialismo, sito intellettuale dai risvolti satirici che ironizza sui limiti del pensiero della sinistra italiana contemporanea. 
L'articolo in questione - di cui, ovviamente, consiglio la lettura - critica aspramente la tendenza di alcuni intellettuali di destra, a giudizio dell'autore, di prendere eccessivamente a modello un certo approccio radical chic della sinistra. In particolare, emerge la scelta, risalente ad alcuni anni fa, della conversione all'Islam di Pietrangelo Buttafuoco, noto e preparato giornalista tra i pochi a poter rappresentare un certo intellettualismo di destra.  Un discorso intelligente che si conclude con questo pensiero, incentrato anche su Massimo Fini (forse un po' troppo alla leggera incluso nella categoria): 
La mia è una preghiera: cari Fini e Buttafuoco, non svilite la vostra indubbia preparazione trasformandovi in una sorta di Augias di destra.Tornate ad essere quei fieri avversari della mentalità salottiera che eravate un tempo. Con la vostra professionalità potreste ridurre a fettine qualunque radical chic o autoproclamato intellettuale della domenica. La mia speranza è che questa nuova moda passi presto,e che si torni il prima possibile a ragionare in modo serio.

Che ci siano notevoli difficoltà per i pensieri "di destra" (dove per destra, sia quando la distinzione aveva caratteristiche più marcate, sia oggi, si intende comunque una visione del mondo che, di nicchia o meno, persiste in diverse persone) di guadagnare terreno in questi ambiti è innegabile.
Sul piano generale, la destra paga un certo "ritardo storico" rispetto alla sinistra. Un ritardo non solo dovuto a scelte errate, ma anche a sconfitte militari, apostrofazioni storiche, in un contesto che, sebbene in Italia abbia raggiunto vette estreme, non si può dire esclusivo del nostro Paese. 
La stessa morale cristiano-cattolica ne é, negli ultimi 50 anni, uscita fortemente ridimensionata, tanto da costituire, ad oggi, uno dei motivi di debolezza dell'Occidente nel difficile confronto globale che ha caratterizzato gli ultimi anni. In ogni caso, la forma ideologica che maggiormente ha preso forza da questi due indebolimenti è sicuramente quella appartenenente alla cultura di sinistra. Nelle sue molteplici forme: Partito Socialista Italiano, Partito Comunista Italiano, si potrebbe anche strizzare l'occhio (in tempi più recenti) anche ai Verdi, fino agli attuali Sinistra Italiana, Partito Democratico eccetera. Sappiamo bene come si è evoluta la storia culturale italiana negli ultimi 70 anni, un discorso sul quale batto molto e per esso rinvio alla mia ultima riflessione, scritta qualche giorno fa, trattando di altri argomenti.

La conseguenza più naturale di tutto ciò è che ci sia una sorta di "emulazione" (spesso goffa e ancora più spesso inconcludente) del modello sinistroide anche nella regione politica della destra. 
Ma le radici storiche di un certo intellettualismo di sinistra si ritrovano, dall'amnistia Togliatti in poi, anche in un ben solido apparato economico-editoriale che la destra, negli ultimi 70 anni almeno (quindi da quando "si è fatta sociale", mi si consenta l'espressione), non ha avuto e non può ancora avere. 

Le difficoltà inerenti anche la mancanza di supporti "logistico-finanziari" si tramutano spesso in una certa goffaggine dei pochi intellettuali di destra che abbiano il fegato di parlare e di esporsi (perchè sono pochi, è inutile che ci giriamo intorno). E coinvolgono, palesemente, anche un personaggio come Buttafuoco. 
Che però, perfino in una serie di incertezze che, per i motivi di cui sopra, ritengo fisiologiche, riesce comunque a rivelare una differenziazione nella sua scelta internazionale di "abbraccio all'Islam" ben marcata rispetto a quella dei sinistri radical chic, colleghi e opposti che vogliamo considerarli. 
Ossia il fatto che non si tratta di una scelta internazionale. E' infatti l'approccio di Buttafuoco, e della sua cultura politica, ad essere radicalmente differente. 

Mentre, infatti, la sinistra post-comunista si avvicina ai temi globali in luogo e in corruzione di un vecchio internazionalismo completamente travisato, di un abbraccio delle lobby finanziarie e imprenditoriali mondiali e di un idealismo antinazionale, antietnico e anti-confine, il presupposto di Buttafuoco è diametralmente opposto: abbraccia l'Islam per i suoi contenuti "nazionali" o per meglio dire identitari (vista la varia composizione dei popoli arabi). 

In buona sostanza, critica la debolezza dei principi occidentali che hanno ammazzato il cristianesimo (la seconda vittima delle conquiste culturali di ispirazione materialistico-storica, dicevamo prima) e guarda con estremo favore chi, i propri principi, é riuscito a salvaguardarli, sebbene in un'ottica cultural-religiosa molto diversa. Un approccio antimoderno, se vogliamo, meno incoerente di quanto possa sembrare: non certo una novità, considerando che il pensiero di destra sociale possiede diversi lati che, in un certo senso, confliggono con la modernità.



sabato 9 gennaio 2016

AntiMoretti, per una cultura reale


Oggi pensavo a come, nel corso dei decenni, il binomio sinistra/cultura abbia raggiunto, dal 1948 in poi, vette impensabili e totalmente distanti dal realtà. 
Un binomio iniziato con la famosa Amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 con cui lo storico segretario del Partito Comunista Italiano tentò, in parte riuscendoci, di inglobare nelle fila dell'emergente PCI molti intellettuali di chiara estrazione fascista. 
Questo tentativo, com'è noto, raggiunse parecchi risultati rilevanti e può essere considerato il primo passaggio di quella costruzione del consenso che la sinistra italiana avrebbe rafforzato sempre di più pur non uscendo da un contesto di minoranza all'interno del Paese. Tra i successi si può ricordare lo storico Delio Cantimori, tra gli insuccessi è noto il caso del drammaturgo ed attore teatrale Giorgio Albertazzi, che non rinnegherà mai la scelta di combattere volontario nella RSI dopo la caduta del regime e l'8 settembre 1943. 

In ogni caso, da quel momento in avanti, l'espansione del profilo culturale, il reclutamento di intellettuali, il progressivo avvicinamento di intere case editrici ai temi e ai valori di sinistra (alcune in modo ufficioso, come avvenuto con la Mondadori, altre in modo esplicito, come testimoniano i finanziamenti di Giangiacomo Feltrinelli ai gruppi estremisti rossi) proseguì praticamente senza sosta fino alla caduta del muro di Berlino il 9 novembre del 1989. 

Non poteva mancare all'appello la cinematografia, letteralmente invasa da autori di sinistra negli anni del dopoguerra: per lo meno, invasa da registi e sceneggiatori che, in qualche modo, parlassero dell'argomento o lo enfatizzassero. Tra i tanti, possiamo cominciare dai noti come Pier Paolo Pasolini, passando per Luigi Comencini, giungendo ai relativamente moderni Nanni Moretti, Massimo Troisi o Roberto Benigni.  Chi non era di idee progressiste, come un Vittorio De Sica prima o un Pupi Avati poi, raramente affrontava di petto l'aspetto politico e più spesso si occupava direttamente di altro.
Tralasciando Troisi che, per fortuna, non è mai stato un vero riferimento di genere culturale-elevato, si potrebbe parlare a lungo di Benigni, un uomo che si improvvisa intellettuale (convincendo anche molti italiani di esserlo) grazie a letture recitate sicuramente interessanti della Divina Commedia, a interpretazioni simpatiche di Pierino e il Lupo di Sergej Prokof'ev, ma quel che è peggio ad un imbarazzante discorso celebrativo fatto sulla Rai, in diretta tv, in occasione del 150°anniversario dell'Unità d'Italia in cui, con fare sicuro e non contestato da nessuno, ebbe il coraggio di definire gli antichi romani come degli italiani diretti ("combattevano contro i cartaginesi ma erano italiani") ignorando, facendo finta di ignorare (non ci interessa, badiamo al sodo) secoli di mescolanze successivi al  dramma delle invasioni barbariche del 476 d.C. che, effettivamente, generarono quello che a partire dal 950 d.C. circa possiamo considerare il popolo italiano. 

Ma ce ne guardiamo bene, perchè l'oggetto del discorso, al termine di questa lunga e faticosa premessa, è Nanni Moretti. Non sicuramente il profilo più intellettualoide partorito dalla cultura di sinistra, direte voi. Ed è vero. Però non privo di quella sicurezza tipica di una mentalità che negli anni ha acquistato la spavalderia di poter proferire qualsiasi sciocchezza senza alcuna contestazione, magari essendo convinto pure della veridicità di quanto si afferma.

Il film oggetto della mia riflessione è Sogni d'oro (1981), una pellicola che racconta di un regista frustrato per l'incomprensione che il pubblico mostra per il lavoro del cineasta, con accezione anche piuttosto polemica. Non sono interessato a giudicare il film nè Moretti (che sì, ritengo un autore enormemente sopravvalutato ma che in questa sede viene osservato in altro senso), ma solo questa scena.


Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema, tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? [...] Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco! Parlo mai di epigrafia greca? Parlo mai di elettronica? Parlo mai delle dighe, dei ponti, delle autostrade? Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!

Questo, in sintesi, il pensiero critico di Michele Apicella, il protagonista frustrato della pellicola. Arriviamo al nocciolo della critica. 
Il concetto di contestare l'ignoranza è, ovviamente, sacrosanto. Oggi ancora più che in passato: siamo sconvolti da internet e abbondano i personaggi da tastiera che scrivono di tutto e di più, spesso senza la minima preparazione. La frase di Moretti in questo film, però, dimostra la differenza che separa il regista romano da esimi intellettuali ideologicamente affini che hanno abbondato nel campo cinematografico, e certo appare assurdo pensare che egli stesso abbia scritto e diretto film in contemporanea ad artisti preparati sul serio quali potevano essere ancora Bernardo Bertolucci  o Ettore Scola.

Ciò che si nota immediatamente è che, nel suo sfogo, il regista protagonista paragona il cinema (quindi un'attività umanistica, non scientifica, ma assimilabile alla letteratura o, al limite, alla musica) con una sfilza di scienze fisiche, ingegneristiche, filologiche, sperimentali, psicologiche e addirittura mediche che, invece, si rifanno a contesti di studio assolutamente oggettivi e privi dell'elemento umanistico (per lo meno in via esclusiva, se consideriamo l'"eccezione" costituita dall'epigrafia greca). 
E' un raffronto - del tutto improprio - che lascia aperti dubbi sulla reale conoscenza di certi argomenti. 
Innanzitutto le materie umanistiche come la letteratura (o il cinema) producono opere non inquadrabili sempre e comunque da un punto di vista tecnico, ma anche sotto altri profili, su tutti il concetto di ispirazione, di valore complessivo dell'opera, e in sintesi di arte. Per questi tipi di discipline, non a caso, esistono due piani di critica.  
La prima è la cosiddetta critica giornalistica, ossia quella che siamo abituati a leggere come recensione - salvo rarissime eccezioni - quando sfogliamo la pagina di spettacolo su un quotidiano o su un sito specializzato. Non c'è bisogno di una formazione tecnica per scrivere in questo ambito: si tratta di appassionati conoscitori della storia cinematografica che, attraverso anni di esperienza visiva (e in qualche caso anche con modesti talenti) rappresenta e giudica il valore, spesso a caldo, di certe opere. Senza avere la pretesa. ma con la convizione soggettiva, di essere vicino alla verità. In sintesi, la critica giornalistica è un consiglio dato al lettore.
Poi c'è la critica teorica, che è tutt'altra storia: essa non si rivolge a tutti i lettori ma solo ad una frangia estremamente di nicchia. Non si propone solo di giudicare il film e di consigliarlo, ma anche di proporre una disamina estremamente attenta delle sue caratteristiche. 
Ora, tutte le discipline elencate da Moretti in contrasto al "cinema di cui si sentono in diritto di parlare tutti" nella scena non possono produrre critica giornalistica. Questo per la natura estremamente tecnica delle stesse, impossibili da giudicare nemmeno in via ipotetica, a differenza di un libro o di un film per i quali, appunto, non è strettamente necessario essere nè dei letterati nè dei tenici della ripresa.
Chi scrive non ritiene di essere un dotto, ma solo un attento osservatore del reale con - perchè  no - anche una formazione culturale che non si può considerare mediocre.


Però fa pensare come una certa cultura politica abbia enfatizzato intellettualmente figure di ogni tipo, tanto quelle di una mente illuminata quale era - e lo ricordiamo di nuovo - Pier Paolo Pasolini, una vivace quale quella di Ettore Scola (in foto), quanto immagini come quelle rappresentate dal già citato Roberto Benigni e, in questo caso, Nanni Moretti.

La scena di Sogni d'oro mostra una supercifialità estrema. La cosa peggiore non è nemmeno il risultato finale, ma il fatto - veramente clamoroso - che sia diventata una specie di icona storica per rappresentare e criticare al meglio il concetto di ignoranza. Un mistero di cui mi sento ancora vittima: negli anni ho pure cercato di immaginare che sia stata una scelta voluta, ma ciò non toglie che lo strafalcione sarebbe stato notevole se solo qualcuno lo avesse fatto notare dall'inizio, alzando la voce sul serio. 

lunedì 4 gennaio 2016

Della meridionalità e dell'italianità perduta



Allora, questa è una storia lunga. Comincia quando, nel forum di tifosi calcistici che frequento, un torinese collega annuncia il suo trasferimento in Sicilia, in zona Novara per precisare. Alle domande di tutti sul perchè di questa scelta la sua risposta è stata quella tipica del settentrionale ingannato dal Mare, perchè sì, esistono anche loro: "Qualità della vita? Volevo vivere in un posto di mare, caldo e con gente meno stressata e che magari sa godersi le cose belle della vita."

Tralasciando la tristezza di una frase del genere che comunque non mi sento di criticare ma di compatire, vista l'illusione e la totale inconsapevolezza che c'è dietro, e tralasciando il fatto che non ho avuto il cuore di contestarlo sulle prime (è una persona che fa una scelta importante, gli vanno fatti gli auguri sinceri, non lanciati gli incubi addosso), dopo qualche pagina di topic alcuni meridionali hanno gettato la maschera e a quel punto l'ho fatto anche io.

Il primo a rompere gli argini, a dirla tutta, è un romano che la tocca piano, come si dice in gergo, e parla apertamente di "paese di merda con gente di merda".  Apriti cielo, "ma come ti permetti, ma che dici, ma che sopra, ma che sotto". Stranamente non viene fuori la parola razzismo, ma il succo è molto simile. Qualche amico del nord introduce il germe del dubbio: "Sì, posso pure concordare che siano tutte cavolate, ma se per un Pino che va da nord a sud ce ne sono cento che fanno il percorso opposto, magari, questo Sud tutto questo splendore non è". Una frase semplice, un ragionamento ovvio, scritto timidamente, quasi a preoccuparsi di non urtare la suscettibilità di chi, per tradizione, non guarda in faccia la realtà.
Poi a scrivere sono due siciliani. Questo il primo dei due loro interventi:
Geograficamente parlando la Sicilia non ha eguali, senza offesa per nessuno. Il problema gravissimo dell'isola, essenzialmente, è uno solo: il degrado. Problema che, ovviamente, va scisso tra: strutturale, politico e sociale.
Come strutture, strade, autostrade, efficienza del lavoro, il degrado in Sicilia è ai minimi storici. La provincia di Messina soprattutto è quella che più ne fa la spese.
La classe politica poi non aiuta di certo, ok, è carente in tutto il paese, ma Dio mio in sicilia, per fortuna che ora hanno Crocetta, che sta riuscendo a fare peggio di Lombardo (e gli davano del mafioso).
Socialmente è la regione peggiore d'Italia, punto. Su un campione di 10 persone, 7 sono un concentrato di: cafonaggine, ignoranza, maleducazione, stupidità e delinquenza senza pari.
Quando ancora vivevo in Sicilia ho sempre avuto modo di girare, spesso, le varie città, ma la peggiore in assoluto è quella in cui sono nato e cresciuto: Catania.

Ripeto, non voglio generalizzare, ci sono anche le brave persone e le famiglie a modo, ma da Siciliano consiglierei di andare sull'isola solo per una breve vacanza estiva, stop.
Secondo intervento, di nuovo un siciliano: 
In Sicilia c'è una migrazione generazionale e culturale devastante, la stragrande maggioranza dei giovani con una laurea emigra altrove, a meno di non avere i giusti agganci per trovare lavoro in quella terra.
purtroppo quello che servirebbe a quella regione è un reset tanto per cominciare della politica locale tutta*, con un bel commissariamento della regione, visto che è assurdo trovare infrastrutture che risalgono all'epoca dei borboni e mai più aggiornate, come la rete ferroviaria.
io ci ho vissuto per 27 anni, alla prima occasione utile me ne sono scappato senza alcun rimorso, vita ne ho una e non posso combattere certo coi mulini a vento di chi è convinto che il lavoro si trova elemosinando raccomandazioni
*dove tutti comprende pure quei venditori di fumo del m5s, sia mai che la mia passi per propaganda verso quei pazzi ignoranti
E' però vero che non è un problema solo siciliano ma di tutto il meridione d'italia, non è che regioni come la calabria o la stessa puglia siano messe tanto meglio
Qualcuno sbotta, ma che dite, ma andate contro la vostra terra, ma Peppino Impastato, ma Falcone, ma Vattelappesca. Io intervengo, con sincera solidarietà, appoggiando ciò che hanno scritto i due siciliani. Mi sento in dovere di citare le eccezioni. Ricordo Trapani, città assolutamente splendida e pulitissima che non avrei mai creduto di vedere in Sicilia. Ricordo eccezioni nella mia regione, come le cittadine della costiera, Salerno, o altre regioni come Molise, Basilicata ma anche l'Abruzzo (che è praticamente Italia centrale per qualità della vita) che fanno da contrasto alle "malate" Campania, Calabria, Puglia e Sicilia. Poi chiudo con un intervento che non può non partire da quel "Peppino Impastato" nominato un po' a sproposito:
Peppino Impastato, così come Falcone, Borsellino, Alfano o Siani e i numerosi eroi che hanno contraddistinto la storia del Mezzogiorno, sono l'ennesima prova che il Sud è singolo, è qualità specifica, è talento ma MAI gruppo, collettivo nè tantomeno coesione. Esistono, hanno bisogno di esistere, a causa del tessuto sociale malato che li ha generati, assetati di giustizia e di senso del bene, dello Stato. Vale per gli eroi come per le numerose menti letterarie e artistiche che hanno dipinto la sua storia, sia chiaro, dal primo Tasso fino all'ultimo dei Verga o dei Tomasi di Lampedusa.
E', in esasperazione, la storia d'Italia: è un problema della penisola quello della mancanza di collettivo, ma ciò non toglie che ci sia stata una parte del Paese che è riuscita, nonostante innumerevoli problemi in circa 8 secoli di storia, a produrre comunque usi civici rilevanti dal 900 in poi. I Comuni medievali o, per andare all'apice, la Serenissima. Ma sono casi abbastanza isolati, la storia d'Italia è la storia delle sue menti specifiche, raramente del suo popolo che, purtroppo, vive e cresce totalmente indifferente alla sua storia (eccezionale, tra l'altro) e alla culla che ha rappresentato per l'Occidente. 
Negli anni ho maturato la convinzione che le persone intelligenti siano giocoforza una minoranza, in qualsiasi popolazione: forse ho ragione, forse ho torto, chissà. Però sono abbastanza sicuro che uno dei primi sostituti naturali dell'intelligenza in una società sana sia il senso civico. Il Nord, pur soffrendo alcuni mali tipici della storia d'Italia, da questo punto di vista ha prodotto qualcosa. Il Sud niente. Tutto qui. Non si tratta di smerdare o di altro, un Pirandello resta un faro assoluto per chiunque voglia capire la cultura occidentale, ed io stesso ne sono innamorato.
Ma un Pirandello, da solo, non fa ciò che tutti vorremmo fosse il Sud. Ma che disgraziatamente non è.
Montanelli, per farla breve, l'aveva vista giusta: "Gli italiani sono così. Hanno una storia pazzesca, addirittura straordinaria: ma non la studiano, non se ne interessano". 
E questa, sinteticamente, è la loro rovina.