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A Walt Disney Silly Symphony!

venerdì 29 gennaio 2016

Benigni l'incoerente: storie radical



"Caso Benigni-Costituzione". Per lo meno, seguendo il teatrale radical chic, nonchè politicamente correttissimo, Andrea Scanzi, giornalista per hobby che riscuote un notevole successo. Il nodo è la dichiarazione del comico toscano che, l'altro ieri, ha affermato di essere favorevole alla riforma del Senato e del titolo V della Costituzione.

Il pensiero corre alla doppia serata (17 e 18 dicembre 2012) in cui Benigni presentò al pubblico un monologo sulla carta dal titolo eloquente La più bella del mondo.
Un monologo piuttosto banale (decisamente inferiore, nell'opinione di chi scrive, a I Dieci comandamenti, trasmesso nel Natale 2014) in cui il comico toscano si dilettava in sperticati elogi della nostra legge fondamentale, facendo riferimento al titolo piuttosto esplicito.

In conseguenza di questo ricordo, piuttosto sbiadito nei lettori, ma probabilmente molto lucido in qualcun altro, si attacca oggi Benigni per la sua affermazione, e sono partite sul web le varie scomuniche: dal "Roberto, ti ho voluto bene, [...] ma siamo al satirico che si fa mesto turibolo del Potere" (citazione dal Maestro Scanzi), al "Benigni, ma non dicevi che era la più bella del mondo?" che imperversa nelle solite immagini meme sui social.
Ora, evidentemente, oltre ai ricordi, sono anche le conoscenze della nostra carta costituzionale che mancano agli italiani e, in generale, ai cittadini comuni di qualsiasi Stato.

La gente non è nata per esercitare un ruolo giurisdizionale, e a ben vedere non è nemmeno giusto che lo faccia, al di là di tutte le frasi retoriche su quanto dovrebbe essere responsabile un popolo in materie così specifiche. Sicuramente l'ignoranza in Italia ha raggiunto livelli di guardia preoccupanti, ma è perfino banale che non si possa chiedere a tutti di interessarsi di diritto costituzionale.

E' quindi proprio del popolino che si approfittano intellettualoidi di varia specie (incluso lo stesso Benigni, sia chiaro), in generale conservatori che, forti del loro ruolo mediatico e talvolta accademico, ingannano apertamente le masse.
Non si spiegherebbero altrimenti le barricate per la riforma del 2005 votata dal governo Berlusconi e presentata come una forma di autoritarismo quasi sanguinario (mentre in realtà non conferiva al governo più poteri di quanti non ce ne fossero in tutte le altre costituzioni occidentali democratiche), nè si spiega come, in questo caso, e per una riforma ben più modesta come quella appena votata nel ddl Boschi, esponenti delle opposizioni gridino alla dittatura, ma anche come Gianni Ferrara, professore emerito di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, si sia quasi stracciato le vesti parlando di "mutilazione della democrazia" e della "necessità di fermare l'eversione autoritaria".
Passiamo al cuore della questione, ossia la carta italiana. Prescindendo dal giudizio negativo che si può dare del più colossale pasticcio istituzionale mai creato in preda a contestualizzazioni storiche folli (leggi, la fine del fascismo), la nostra Costituzione è composta di 139 articoli: i primi dodici enunciano i principi fondamentali, mentre arrivati al numero 54 si comincia a parlare di diritti e doveri dei cittadini. La sezione che riguarda la riforma del Senato viene dopo, per la precisione nel Titolo I della seconda parte, mentre le modifiche che si vogliono introdurre al rapporto tra Stato e Regioni riguarderanno il famoso Titolo V, quindi ancora più "in giù".

Questa riflessione non è una difesa di Benigni di cui non sono neanche un estimatore (anzi) ma della realtà contro le solite ipocrisie: il comico toscano non ha mai detto, nello spettacolo di due puntate andate in onda sulla Rai tre anni fa, che non approvava un cambiamento della seconda parte della Costituzione. Anzi, il monologo iniziava, oltre che con i soliti sperticati elogi della carta, anche con un "Certo che si può cambiare, ma magari la seconda parte, la prima non si discute" e con una lettura successiva dei principi fondamentali, fermandosi quindi ai primi 12 articoli.

Il vero problema è che signorotti dello status quo e del click facile come Scanzi, così come tutti quelli che vogliono prendere per il naso gli italiani su una questione cruciale di cui evidentemente in pochi conoscono l'importanza ("non si mangia con le riforme" pluricit.), puntano su una sostanziale ovvietà, ossia la conoscenza pressochè nulla della carta stessa: è facile, quindi, gridare all'incoerenza contro un esponente fondamentale della cultura di massa che mai si vorrebbe perdere tra le fila degli oppositori, facile gridare alla dittatura, facile gridare agli allarmi antidemocratici. Come da tradizione conservatrice: di cui Benigni ha fatto parte, è bene dirlo per onore della verità, fino all'altro ieri, quando al potere c'era Silvio Berlusconi.

mercoledì 13 gennaio 2016

Buttafuoco e la scelta islamica: scimmiottamento radical chic, ma non solo

Lo spunto è questo interessantissimo articolo, firmato dal bravo Francesco Latiano, collega della popolare pagina facebook e sito web La via culturale al socialismo, sito intellettuale dai risvolti satirici che ironizza sui limiti del pensiero della sinistra italiana contemporanea. 
L'articolo in questione - di cui, ovviamente, consiglio la lettura - critica aspramente la tendenza di alcuni intellettuali di destra, a giudizio dell'autore, di prendere eccessivamente a modello un certo approccio radical chic della sinistra. In particolare, emerge la scelta, risalente ad alcuni anni fa, della conversione all'Islam di Pietrangelo Buttafuoco, noto e preparato giornalista tra i pochi a poter rappresentare un certo intellettualismo di destra.  Un discorso intelligente che si conclude con questo pensiero, incentrato anche su Massimo Fini (forse un po' troppo alla leggera incluso nella categoria): 
La mia è una preghiera: cari Fini e Buttafuoco, non svilite la vostra indubbia preparazione trasformandovi in una sorta di Augias di destra.Tornate ad essere quei fieri avversari della mentalità salottiera che eravate un tempo. Con la vostra professionalità potreste ridurre a fettine qualunque radical chic o autoproclamato intellettuale della domenica. La mia speranza è che questa nuova moda passi presto,e che si torni il prima possibile a ragionare in modo serio.

Che ci siano notevoli difficoltà per i pensieri "di destra" (dove per destra, sia quando la distinzione aveva caratteristiche più marcate, sia oggi, si intende comunque una visione del mondo che, di nicchia o meno, persiste in diverse persone) di guadagnare terreno in questi ambiti è innegabile.
Sul piano generale, la destra paga un certo "ritardo storico" rispetto alla sinistra. Un ritardo non solo dovuto a scelte errate, ma anche a sconfitte militari, apostrofazioni storiche, in un contesto che, sebbene in Italia abbia raggiunto vette estreme, non si può dire esclusivo del nostro Paese. 
La stessa morale cristiano-cattolica ne é, negli ultimi 50 anni, uscita fortemente ridimensionata, tanto da costituire, ad oggi, uno dei motivi di debolezza dell'Occidente nel difficile confronto globale che ha caratterizzato gli ultimi anni. In ogni caso, la forma ideologica che maggiormente ha preso forza da questi due indebolimenti è sicuramente quella appartenenente alla cultura di sinistra. Nelle sue molteplici forme: Partito Socialista Italiano, Partito Comunista Italiano, si potrebbe anche strizzare l'occhio (in tempi più recenti) anche ai Verdi, fino agli attuali Sinistra Italiana, Partito Democratico eccetera. Sappiamo bene come si è evoluta la storia culturale italiana negli ultimi 70 anni, un discorso sul quale batto molto e per esso rinvio alla mia ultima riflessione, scritta qualche giorno fa, trattando di altri argomenti.

La conseguenza più naturale di tutto ciò è che ci sia una sorta di "emulazione" (spesso goffa e ancora più spesso inconcludente) del modello sinistroide anche nella regione politica della destra. 
Ma le radici storiche di un certo intellettualismo di sinistra si ritrovano, dall'amnistia Togliatti in poi, anche in un ben solido apparato economico-editoriale che la destra, negli ultimi 70 anni almeno (quindi da quando "si è fatta sociale", mi si consenta l'espressione), non ha avuto e non può ancora avere. 

Le difficoltà inerenti anche la mancanza di supporti "logistico-finanziari" si tramutano spesso in una certa goffaggine dei pochi intellettuali di destra che abbiano il fegato di parlare e di esporsi (perchè sono pochi, è inutile che ci giriamo intorno). E coinvolgono, palesemente, anche un personaggio come Buttafuoco. 
Che però, perfino in una serie di incertezze che, per i motivi di cui sopra, ritengo fisiologiche, riesce comunque a rivelare una differenziazione nella sua scelta internazionale di "abbraccio all'Islam" ben marcata rispetto a quella dei sinistri radical chic, colleghi e opposti che vogliamo considerarli. 
Ossia il fatto che non si tratta di una scelta internazionale. E' infatti l'approccio di Buttafuoco, e della sua cultura politica, ad essere radicalmente differente. 

Mentre, infatti, la sinistra post-comunista si avvicina ai temi globali in luogo e in corruzione di un vecchio internazionalismo completamente travisato, di un abbraccio delle lobby finanziarie e imprenditoriali mondiali e di un idealismo antinazionale, antietnico e anti-confine, il presupposto di Buttafuoco è diametralmente opposto: abbraccia l'Islam per i suoi contenuti "nazionali" o per meglio dire identitari (vista la varia composizione dei popoli arabi). 

In buona sostanza, critica la debolezza dei principi occidentali che hanno ammazzato il cristianesimo (la seconda vittima delle conquiste culturali di ispirazione materialistico-storica, dicevamo prima) e guarda con estremo favore chi, i propri principi, é riuscito a salvaguardarli, sebbene in un'ottica cultural-religiosa molto diversa. Un approccio antimoderno, se vogliamo, meno incoerente di quanto possa sembrare: non certo una novità, considerando che il pensiero di destra sociale possiede diversi lati che, in un certo senso, confliggono con la modernità.



sabato 9 gennaio 2016

AntiMoretti, per una cultura reale


Oggi pensavo a come, nel corso dei decenni, il binomio sinistra/cultura abbia raggiunto, dal 1948 in poi, vette impensabili e totalmente distanti dal realtà. 
Un binomio iniziato con la famosa Amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 con cui lo storico segretario del Partito Comunista Italiano tentò, in parte riuscendoci, di inglobare nelle fila dell'emergente PCI molti intellettuali di chiara estrazione fascista. 
Questo tentativo, com'è noto, raggiunse parecchi risultati rilevanti e può essere considerato il primo passaggio di quella costruzione del consenso che la sinistra italiana avrebbe rafforzato sempre di più pur non uscendo da un contesto di minoranza all'interno del Paese. Tra i successi si può ricordare lo storico Delio Cantimori, tra gli insuccessi è noto il caso del drammaturgo ed attore teatrale Giorgio Albertazzi, che non rinnegherà mai la scelta di combattere volontario nella RSI dopo la caduta del regime e l'8 settembre 1943. 

In ogni caso, da quel momento in avanti, l'espansione del profilo culturale, il reclutamento di intellettuali, il progressivo avvicinamento di intere case editrici ai temi e ai valori di sinistra (alcune in modo ufficioso, come avvenuto con la Mondadori, altre in modo esplicito, come testimoniano i finanziamenti di Giangiacomo Feltrinelli ai gruppi estremisti rossi) proseguì praticamente senza sosta fino alla caduta del muro di Berlino il 9 novembre del 1989. 

Non poteva mancare all'appello la cinematografia, letteralmente invasa da autori di sinistra negli anni del dopoguerra: per lo meno, invasa da registi e sceneggiatori che, in qualche modo, parlassero dell'argomento o lo enfatizzassero. Tra i tanti, possiamo cominciare dai noti come Pier Paolo Pasolini, passando per Luigi Comencini, giungendo ai relativamente moderni Nanni Moretti, Massimo Troisi o Roberto Benigni.  Chi non era di idee progressiste, come un Vittorio De Sica prima o un Pupi Avati poi, raramente affrontava di petto l'aspetto politico e più spesso si occupava direttamente di altro.
Tralasciando Troisi che, per fortuna, non è mai stato un vero riferimento di genere culturale-elevato, si potrebbe parlare a lungo di Benigni, un uomo che si improvvisa intellettuale (convincendo anche molti italiani di esserlo) grazie a letture recitate sicuramente interessanti della Divina Commedia, a interpretazioni simpatiche di Pierino e il Lupo di Sergej Prokof'ev, ma quel che è peggio ad un imbarazzante discorso celebrativo fatto sulla Rai, in diretta tv, in occasione del 150°anniversario dell'Unità d'Italia in cui, con fare sicuro e non contestato da nessuno, ebbe il coraggio di definire gli antichi romani come degli italiani diretti ("combattevano contro i cartaginesi ma erano italiani") ignorando, facendo finta di ignorare (non ci interessa, badiamo al sodo) secoli di mescolanze successivi al  dramma delle invasioni barbariche del 476 d.C. che, effettivamente, generarono quello che a partire dal 950 d.C. circa possiamo considerare il popolo italiano. 

Ma ce ne guardiamo bene, perchè l'oggetto del discorso, al termine di questa lunga e faticosa premessa, è Nanni Moretti. Non sicuramente il profilo più intellettualoide partorito dalla cultura di sinistra, direte voi. Ed è vero. Però non privo di quella sicurezza tipica di una mentalità che negli anni ha acquistato la spavalderia di poter proferire qualsiasi sciocchezza senza alcuna contestazione, magari essendo convinto pure della veridicità di quanto si afferma.

Il film oggetto della mia riflessione è Sogni d'oro (1981), una pellicola che racconta di un regista frustrato per l'incomprensione che il pubblico mostra per il lavoro del cineasta, con accezione anche piuttosto polemica. Non sono interessato a giudicare il film nè Moretti (che sì, ritengo un autore enormemente sopravvalutato ma che in questa sede viene osservato in altro senso), ma solo questa scena.


Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema, tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? [...] Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco! Parlo mai di epigrafia greca? Parlo mai di elettronica? Parlo mai delle dighe, dei ponti, delle autostrade? Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!

Questo, in sintesi, il pensiero critico di Michele Apicella, il protagonista frustrato della pellicola. Arriviamo al nocciolo della critica. 
Il concetto di contestare l'ignoranza è, ovviamente, sacrosanto. Oggi ancora più che in passato: siamo sconvolti da internet e abbondano i personaggi da tastiera che scrivono di tutto e di più, spesso senza la minima preparazione. La frase di Moretti in questo film, però, dimostra la differenza che separa il regista romano da esimi intellettuali ideologicamente affini che hanno abbondato nel campo cinematografico, e certo appare assurdo pensare che egli stesso abbia scritto e diretto film in contemporanea ad artisti preparati sul serio quali potevano essere ancora Bernardo Bertolucci  o Ettore Scola.

Ciò che si nota immediatamente è che, nel suo sfogo, il regista protagonista paragona il cinema (quindi un'attività umanistica, non scientifica, ma assimilabile alla letteratura o, al limite, alla musica) con una sfilza di scienze fisiche, ingegneristiche, filologiche, sperimentali, psicologiche e addirittura mediche che, invece, si rifanno a contesti di studio assolutamente oggettivi e privi dell'elemento umanistico (per lo meno in via esclusiva, se consideriamo l'"eccezione" costituita dall'epigrafia greca). 
E' un raffronto - del tutto improprio - che lascia aperti dubbi sulla reale conoscenza di certi argomenti. 
Innanzitutto le materie umanistiche come la letteratura (o il cinema) producono opere non inquadrabili sempre e comunque da un punto di vista tecnico, ma anche sotto altri profili, su tutti il concetto di ispirazione, di valore complessivo dell'opera, e in sintesi di arte. Per questi tipi di discipline, non a caso, esistono due piani di critica.  
La prima è la cosiddetta critica giornalistica, ossia quella che siamo abituati a leggere come recensione - salvo rarissime eccezioni - quando sfogliamo la pagina di spettacolo su un quotidiano o su un sito specializzato. Non c'è bisogno di una formazione tecnica per scrivere in questo ambito: si tratta di appassionati conoscitori della storia cinematografica che, attraverso anni di esperienza visiva (e in qualche caso anche con modesti talenti) rappresenta e giudica il valore, spesso a caldo, di certe opere. Senza avere la pretesa. ma con la convizione soggettiva, di essere vicino alla verità. In sintesi, la critica giornalistica è un consiglio dato al lettore.
Poi c'è la critica teorica, che è tutt'altra storia: essa non si rivolge a tutti i lettori ma solo ad una frangia estremamente di nicchia. Non si propone solo di giudicare il film e di consigliarlo, ma anche di proporre una disamina estremamente attenta delle sue caratteristiche. 
Ora, tutte le discipline elencate da Moretti in contrasto al "cinema di cui si sentono in diritto di parlare tutti" nella scena non possono produrre critica giornalistica. Questo per la natura estremamente tecnica delle stesse, impossibili da giudicare nemmeno in via ipotetica, a differenza di un libro o di un film per i quali, appunto, non è strettamente necessario essere nè dei letterati nè dei tenici della ripresa.
Chi scrive non ritiene di essere un dotto, ma solo un attento osservatore del reale con - perchè  no - anche una formazione culturale che non si può considerare mediocre.


Però fa pensare come una certa cultura politica abbia enfatizzato intellettualmente figure di ogni tipo, tanto quelle di una mente illuminata quale era - e lo ricordiamo di nuovo - Pier Paolo Pasolini, una vivace quale quella di Ettore Scola (in foto), quanto immagini come quelle rappresentate dal già citato Roberto Benigni e, in questo caso, Nanni Moretti.

La scena di Sogni d'oro mostra una supercifialità estrema. La cosa peggiore non è nemmeno il risultato finale, ma il fatto - veramente clamoroso - che sia diventata una specie di icona storica per rappresentare e criticare al meglio il concetto di ignoranza. Un mistero di cui mi sento ancora vittima: negli anni ho pure cercato di immaginare che sia stata una scelta voluta, ma ciò non toglie che lo strafalcione sarebbe stato notevole se solo qualcuno lo avesse fatto notare dall'inizio, alzando la voce sul serio. 

lunedì 4 gennaio 2016

Della meridionalità e dell'italianità perduta



Allora, questa è una storia lunga. Comincia quando, nel forum di tifosi calcistici che frequento, un torinese collega annuncia il suo trasferimento in Sicilia, in zona Novara per precisare. Alle domande di tutti sul perchè di questa scelta la sua risposta è stata quella tipica del settentrionale ingannato dal Mare, perchè sì, esistono anche loro: "Qualità della vita? Volevo vivere in un posto di mare, caldo e con gente meno stressata e che magari sa godersi le cose belle della vita."

Tralasciando la tristezza di una frase del genere che comunque non mi sento di criticare ma di compatire, vista l'illusione e la totale inconsapevolezza che c'è dietro, e tralasciando il fatto che non ho avuto il cuore di contestarlo sulle prime (è una persona che fa una scelta importante, gli vanno fatti gli auguri sinceri, non lanciati gli incubi addosso), dopo qualche pagina di topic alcuni meridionali hanno gettato la maschera e a quel punto l'ho fatto anche io.

Il primo a rompere gli argini, a dirla tutta, è un romano che la tocca piano, come si dice in gergo, e parla apertamente di "paese di merda con gente di merda".  Apriti cielo, "ma come ti permetti, ma che dici, ma che sopra, ma che sotto". Stranamente non viene fuori la parola razzismo, ma il succo è molto simile. Qualche amico del nord introduce il germe del dubbio: "Sì, posso pure concordare che siano tutte cavolate, ma se per un Pino che va da nord a sud ce ne sono cento che fanno il percorso opposto, magari, questo Sud tutto questo splendore non è". Una frase semplice, un ragionamento ovvio, scritto timidamente, quasi a preoccuparsi di non urtare la suscettibilità di chi, per tradizione, non guarda in faccia la realtà.
Poi a scrivere sono due siciliani. Questo il primo dei due loro interventi:
Geograficamente parlando la Sicilia non ha eguali, senza offesa per nessuno. Il problema gravissimo dell'isola, essenzialmente, è uno solo: il degrado. Problema che, ovviamente, va scisso tra: strutturale, politico e sociale.
Come strutture, strade, autostrade, efficienza del lavoro, il degrado in Sicilia è ai minimi storici. La provincia di Messina soprattutto è quella che più ne fa la spese.
La classe politica poi non aiuta di certo, ok, è carente in tutto il paese, ma Dio mio in sicilia, per fortuna che ora hanno Crocetta, che sta riuscendo a fare peggio di Lombardo (e gli davano del mafioso).
Socialmente è la regione peggiore d'Italia, punto. Su un campione di 10 persone, 7 sono un concentrato di: cafonaggine, ignoranza, maleducazione, stupidità e delinquenza senza pari.
Quando ancora vivevo in Sicilia ho sempre avuto modo di girare, spesso, le varie città, ma la peggiore in assoluto è quella in cui sono nato e cresciuto: Catania.

Ripeto, non voglio generalizzare, ci sono anche le brave persone e le famiglie a modo, ma da Siciliano consiglierei di andare sull'isola solo per una breve vacanza estiva, stop.
Secondo intervento, di nuovo un siciliano: 
In Sicilia c'è una migrazione generazionale e culturale devastante, la stragrande maggioranza dei giovani con una laurea emigra altrove, a meno di non avere i giusti agganci per trovare lavoro in quella terra.
purtroppo quello che servirebbe a quella regione è un reset tanto per cominciare della politica locale tutta*, con un bel commissariamento della regione, visto che è assurdo trovare infrastrutture che risalgono all'epoca dei borboni e mai più aggiornate, come la rete ferroviaria.
io ci ho vissuto per 27 anni, alla prima occasione utile me ne sono scappato senza alcun rimorso, vita ne ho una e non posso combattere certo coi mulini a vento di chi è convinto che il lavoro si trova elemosinando raccomandazioni
*dove tutti comprende pure quei venditori di fumo del m5s, sia mai che la mia passi per propaganda verso quei pazzi ignoranti
E' però vero che non è un problema solo siciliano ma di tutto il meridione d'italia, non è che regioni come la calabria o la stessa puglia siano messe tanto meglio
Qualcuno sbotta, ma che dite, ma andate contro la vostra terra, ma Peppino Impastato, ma Falcone, ma Vattelappesca. Io intervengo, con sincera solidarietà, appoggiando ciò che hanno scritto i due siciliani. Mi sento in dovere di citare le eccezioni. Ricordo Trapani, città assolutamente splendida e pulitissima che non avrei mai creduto di vedere in Sicilia. Ricordo eccezioni nella mia regione, come le cittadine della costiera, Salerno, o altre regioni come Molise, Basilicata ma anche l'Abruzzo (che è praticamente Italia centrale per qualità della vita) che fanno da contrasto alle "malate" Campania, Calabria, Puglia e Sicilia. Poi chiudo con un intervento che non può non partire da quel "Peppino Impastato" nominato un po' a sproposito:
Peppino Impastato, così come Falcone, Borsellino, Alfano o Siani e i numerosi eroi che hanno contraddistinto la storia del Mezzogiorno, sono l'ennesima prova che il Sud è singolo, è qualità specifica, è talento ma MAI gruppo, collettivo nè tantomeno coesione. Esistono, hanno bisogno di esistere, a causa del tessuto sociale malato che li ha generati, assetati di giustizia e di senso del bene, dello Stato. Vale per gli eroi come per le numerose menti letterarie e artistiche che hanno dipinto la sua storia, sia chiaro, dal primo Tasso fino all'ultimo dei Verga o dei Tomasi di Lampedusa.
E', in esasperazione, la storia d'Italia: è un problema della penisola quello della mancanza di collettivo, ma ciò non toglie che ci sia stata una parte del Paese che è riuscita, nonostante innumerevoli problemi in circa 8 secoli di storia, a produrre comunque usi civici rilevanti dal 900 in poi. I Comuni medievali o, per andare all'apice, la Serenissima. Ma sono casi abbastanza isolati, la storia d'Italia è la storia delle sue menti specifiche, raramente del suo popolo che, purtroppo, vive e cresce totalmente indifferente alla sua storia (eccezionale, tra l'altro) e alla culla che ha rappresentato per l'Occidente. 
Negli anni ho maturato la convinzione che le persone intelligenti siano giocoforza una minoranza, in qualsiasi popolazione: forse ho ragione, forse ho torto, chissà. Però sono abbastanza sicuro che uno dei primi sostituti naturali dell'intelligenza in una società sana sia il senso civico. Il Nord, pur soffrendo alcuni mali tipici della storia d'Italia, da questo punto di vista ha prodotto qualcosa. Il Sud niente. Tutto qui. Non si tratta di smerdare o di altro, un Pirandello resta un faro assoluto per chiunque voglia capire la cultura occidentale, ed io stesso ne sono innamorato.
Ma un Pirandello, da solo, non fa ciò che tutti vorremmo fosse il Sud. Ma che disgraziatamente non è.
Montanelli, per farla breve, l'aveva vista giusta: "Gli italiani sono così. Hanno una storia pazzesca, addirittura straordinaria: ma non la studiano, non se ne interessano". 
E questa, sinteticamente, è la loro rovina. 

venerdì 1 gennaio 2016

Come mi burlo dell'appassionato 2015



Credo che tra tutte le prese in giro a cui abbiamo assistito nel 2015, un posto d'onore lo meriti Disney Italia per il colpo gobbo  con cui ha tentato di buggerare migliaia di appassionati sulla ormai pluridecennale questione del film Musica Maestro, praticamente ancora inedito nel nostro Paese in qualsiasi formato esistente, VHS, DVD, Blu Ray o Super8 che sia. 

Per chi non lo conoscesse, trattasi di un grande classico dell'animazione e della musica moderna, lanciato da Walt Disney nel 1946, sulla falsariga del più popolare concerto filmato realizzato con l'intramontabile Fantasia  del 1940. Un piccolo capolavoro in cui la musica e l'animazione la facevano da padroni, tra interpretazioni magistrali animate del famoso Pierino e il Lupo di Sergej Prokof'ev e del Clar de Lun di Claude Debussy (ribattezzato nel film Palude Blu).

Pierino e il Lupo

Palude Blu

Il film è in gran parte musicato, ma, in misura maggiore rispetto a Fantasia, ha anche una componente parlata di primo piano: la versione italiana conta sul doppiaggio di personalità illustri della nostra storia, come il gruppo musicale Quartetto Cetra (che cantavano la prima sequenza del film, I Testoni e la Cuticagna), o come il grande Alberto Sordi, narratore dell'ultimo episodio del film, La Balena che voleva cantare all'Opera.

Torniamo al praticamente iniziale: praticamente niente edizione italiana.
Eggià, perchè teoricamente, ufficialmente, dopo circa 30 anni di attese, Disney Italia si era sprecata di annunciare una data d'uscita per il suddetto film in versione DVD, indicando come data di rilascio il 4 novembre 2015. Sorvolando sulla scelta antidiluviana di proporre un formato ormai sorpassato come il DVD invece del Blu Ray nell'anno appena trascorso, le perle non si fermano qui. Il DVD effettivamente esce, ma non c'è l'italiano. Solo inglese. Praticamente come l'edizione britannica esistente da circa una quindicina d'anni a questa parte, ma venduta sul mercato italiano.



Non bastasse questo a far saltare le coronarie anche al più paziente dei cultori di un film così importante per la storia dell'animazione del XX secolo, nemmeno la grafica dell'edizione è stata ridisegnata. Sìssignori, la parola "Classici" non la vedrete da nessuna parte, ma c'è un bello stampato "Classics" in alto, con il numero idenfiticativo.

E poi la perla finale, contraddistinta dal bollino ben visibile nell' edizione italiana : "Versione inglese. Non contiene la lingua italiana".

Buon 2016 a tutti!