Copertina

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A Walt Disney Silly Symphony!

lunedì 28 dicembre 2015

Sfogo di passione e amore





Oggi mi son svegliato più riflessivo del solito, desideroso di parlare di meridionalismo, di meridionalità, del loro complicato rapporto con l’italianità. Lo sfogo parte da considerazioni oggettive.
Da questo Sud che nella storia italiana, pre e post unitaria, ha generato menti brillanti sin dai tempi di Torquato Tasso, giungendo poi a Luigi Pirandello, Giovanni Verga e Benedetto Croce, ma che collettivamente ha faticato, affannato sempre. 

Ieri loro, poi la grande arte teatrale dei De Filippo e dei Totò, oggi in ambiti non solo letterari, anche registi cinematografici, musicali, culinari, insomma di tutto di più: mondi diversi quali possono essere quelli di un Giuseppe Tornatore, un Pino Daniele o di un Antonino Cannavacciuolo.  La parola d'ordine è personalità. E' singolo. E' privato. Il concetto di "insieme" è completamente sconosciuto. 

Nel Nord qualcosa sotto questo profilo si è sempre visto, sin dai tempi dei Comuni, non casualmente organizzazioni collettive che in pieno Medioevo sviluppavano l'unico vero senso civico italiano successivo al 950 d.C. ossia il periodo in cui, completate le fusioni post-invasioni barbariche, si ritiene, a ragion veduta, che sia nato il popolo italiano, che si accingeva a inaugurare la sua straordinaria storia culturale con i Placiti Cassinesi del 963. 

Rappresentazione della Battaglia di Legnano del 1176 (Amos Cassioli, 1860)
Comuni che già rappresentavano il paradosso dell'italianità, capace di sviluppare fenomeni enormi ed elevatissimi, ma di andare de facto contro la formazione di un'unità geopoliticamente inevitabile dopo il crollo dell'Impero Romano: con quella Pace di Costanza del 1183, la Lega Lombarda annullava il primo tentativo vero unitario della penisola, sebbene sotto l'egida di Federico Barbarossa e di quel Sacro Romano Impero che, comunque, non avrebbe impedito ad altre giovani nazioni di affrancarsi e costituirsi appena qualche secolo dopo (come avvenuto in Francia intorno al 1350). Quel civismo è un patrimonio italiano, in ogni caso. Manca completamente ad un Sud strozzato dal colonialismo spagnolo e da un sistema feudale che avrebbe faticato a morire anche nel XIX secolo. Nel Nord, anche se non sempre profondo, nascono le grandi ideologie italiane. L'Emilia e la Toscana sono le culle di molti idealismi, "risorgimentali", socialisti ma anche tipicamente italiani, come il fascismo. Non si ci salva certo dal dramma del senso collettivo inesistente, un problema atavico della cultura italiana, ma ciò non toglie che che ci sia una scala, secondo me abbastanza definita, tra settentrionali e meridionali sul tema. 
Sì, noi meridionali. Parlo in prima persona plurale non casualmente: non mi piace dare le colpe sempre agli altri, anche se personalmente ho sempre sentito la questione fin dalla più profonda infanzia.

La seconda parte di questo sfogo è del tutto personale. Non ho mai capito il divisionismo, soprattutto di territori e sottoculture che di proprio non hanno espresso nulla prima del 1860 che non fosse, appunto, la grande cultura italiana, linguistica come artistica e letteraria: quella di cui sopra, per intenderci. Che non hanno espresso nulla di politico rilevante prima del 1860, ad eccezione della mai troppo lodata Serenissima, i cui eredi per ironia della sorte potrebbero essere gli unici a poter sbattere un minimo i piedini e a rivendicare di aver prodotto qualcosa. E' altrettanto ironico il fatto che siano gli italiani che più di altri ancora sentono il significato di certe feste (come il vituperato 4 Novembre) nonostante la messa al bando delle stesse da parte delle istituzioni: il motivo, forse, è che dentro di loro in molti si sentono come la tradizione più florida della politica che l'italianità abbia mai prodotto a livello internazionale.
Ho sempre odiato i dialetti e le ridicole campagne che ci costruiscono attorno, mai sopportato le pagliacciate che miei conterranei, per di più cresciuti in quartieri bene di Napoli dove in famiglia non facevano che parlare (ovviamente) italiano e studiavano tanto il meridionale Tasso quanto il toscanissimo Dante. 
Odiavo quando si atteggiavano a dialettofoni non avendo nulla in comune con quella parlata e soprattutto con quei modi. 
Odiavo soprattutto quanto queste cose fossero motivo di inclusione sociale nei circoli e nei gruppi giovanili, portavoce passivi e squallidi di un localismo tendenzioso che anche altrove in Italia ha fatto proseliti, aiutato dalla tendenza culturale promossa dalle organizzazioni farlocche come l'Unesco o le stesse istituzioni europee che (probabilmente) festeggiano e stappano una bottiglia di champagne in più ogni qualvolta si indebolisce una nazione e si creano queste micro-identità ridicole, strumento ideale per espandere il loro fastidioso controllo.

Odio il pessimismo italico che (attuato anche da professionisti seri come Tullio De Mauro, più pericolosi perché giustamente presi sul serio) particolareggia tutto in chiave esclusivamente italiana (mi riferisco al discorso sulla mancanza di omogeneità linguistica prima della seconda metà del XX secolo che si ripete ossessivamente senza fare alcun confronto con le altre realtà nazionali, europee e mondiali). 
Mi infastidisce quel tipico atteggiamento da complessati che tende a fare paragoni con i migliori perché fondamentalmente depresso. Quella voglia di annullare automaticamente ogni fase storica solo perché c'è stato qualcuno che ha contato di più.

Chiudo con i primi esempi comparativi che mi vengono in mente: in una Ungheria o Romania a caso, nazioni che hanno contato ben meno di noi nel mondo contemporaneo, non si pensa a nulla di tutto ciò. Si pensa semplicemente alla propria identità, al presente, e se si deve pensare al passato si ricorda quello che di buono si è fatto, senza troppe elucubrazioni mentali. 
Qualcosa che noi dovremmo fare sempre per l'Italia, in questo macello di odi l'unica che ami davvero: quel Paese non sarà stata la prima potenza mondiale ma qualcosa di importante  ha fatto comunque, specialmente tra il 1900 e il 1940. 
Quel qualcosa va ricordato e anche lodato, quando necessario.

venerdì 18 dicembre 2015

La Forza si ritrova...oppure no? Libero dialogo in forma aperta

La qui presente non è una recensione, ma un resoconto interessato di un vecchio fan, quindi CI SONO DEGLI SPOILER. Alla fine Episodio VII è arrivato, lo abbiamo atteso e bramato per un bel po'.
J.J Abrams non è mai stato il mio autore preferito, l'ho sempre ritenuto un incompiuto: capace di dirigere alla grande e con maestria ma anche di indebolirsi nelle seconde parti, soprattutto nei finali di buona parte dei suoi lavori. 
Alla notizia che lo avessero incaricato del nuovo Star Wars però ho reagito con speranza: ritenevo che la serie, per potersi risollevare, dovesse giocoforza puntare anche su un tecnico di grande livello, in grado di "asciugare" da eccessi caratteristici come quelli visti nella seconda trilogia, pessima per tanti motivi ma anche per la caratterizzazione altrettanto pessima degli allora nuovi personaggi.
Innanzittutto fatemi tirare un sospiro di sollievo per quanto riguarda la componente estetica del film, che finalmente recupera due elementi della trilogia originale degli anni Settanta/Ottanta: la coerenza, oltre che l'aspetto che ci faceva riconoscere la serie alla vista.
Tre immagini possono rendere l'idea, prima che le spieghi nei dettagli.

Star Wars I : La Minaccia Fantasma

Star Wars IV: Una Nuova Speranza


Star Wars VI &VII

Le forme bombate tipiche della computer grafica anni '90 (e dello stile che avevano le automobili e buona parte delle cose che utilizzavamo, per fare un esempio pratico riconoscibile a tutti) avevano abbondato nei prequel.
La giustificazione che si diede all'epoca, sia da parte della produzione che dei fan "incorruttibili" fu che i primi episodi narrassero della Repubblica viva, quindi di un'epoca di splendore in contrapposizione all'oscurantismo imperiale che domina nella galassia in episodi 4, 5 e 6. Non c'è bisogno di essere degli esperti di estetica per comprendere quanto questa spiegazione leghi poco, anzi faccia acqua da tutte le parti: la realtà è che Lucas, insieme a tutta la produzione, non fece altro che adeguarsi ai canoni estetici tipici dell'epoca in cui uscì La Minaccia Fantasma e schiaffarli nella pellicola. Una cosa francamente fastidiosa, che nemmeno quella debole spiegazione aiutava a stemperare: i nostri occhi infatti sono abituati alla percezione visiva dello stile di Episodio I come più moderno, e l'effetto che ne risultava, sapendo che che fosse un prequel ambientato in epoche cronologicamente precedenti, era soltanto sgradevole. Senza contare il fatto che realizzare una versione ripulita e "splendente" dello stile decadente imperiale non significava affatto dimenticarsi dell'aspetto più importante, citato all'inizio di questa lunga parentesi: la coerenza. Perchè Star Wars I non proponeva uno stile ripulito rispetto a Star Wars IV, ma qualcosa che non c'entrava assolutamente nulla a livello visivo, fine. 
Il Risveglio della Forza è stupendamente diverso in questo: va riconosciuto che il compito era molto più facile (e anche obbligato: come avrebbero mai potuto giustificare questa volta un ritorno agli anni 2000 per una storia cronologicamente successiva a Il Ritorno dello Jedi?), ma non si può fingere di ignorare che rivedere le forme tipiche di Star Wars in un film di Star Wars sia stato un ottimo modo per cominciare. 

Passiamo al film? Facciamolo, e complimentiamoci con J.J., in grande onestà. Perchè signori miei, non sbaglia una singola scena di azione per oltre 2 ore. Controllo totale della pellicola, sequenze semplicemente fantastiche. La fotografia mozza il fiato, gli sfondi "arcaici" pieni di richiami ad episodi IV, V e VI commuovono dal primo all'ultimo.  Il primo tempo è immacolato e si sfiora la perfezione, non è un'esagerazione.




Nella "ripresa" qualcosa cambia, inutile negarlo. Entra in gioco una narrativa che fa i conti con la natura irrimediabilmente ruffiana di J.J. votato, dall'apparizione di Han Solo in poi, ad assecondare i fan attraverso alcune scelte che richiamano molto la narrativa di Episodio IV. E strozzato anche dalle limitazioni intrinseche di un film che rappresenta un'introduzione ancora più pronunciata di quanto non fu Una Nuova Speranza nel 1977. Ciò nonostante i personaggi nuovi sono tutti di fattura notevolissima, d'impatto del tutto simile ai vari Luke, Han, Leila e perchè no, anche Lando. Una cosa che non era riuscita alla seconda trilogia di Lucas, dove tra caratterizzazioni improponibili (Jar Jar Binks, ancora troppo poco criticato) e riedizioni giovanili smorte e povere con tocchi di indecenza (Obi Wan Kenobi per le prime due ma soprattutto Anakin Skywalker per la terza "qualità") non si è mai arrivati al carisma che già dal primo frame dimostrano tanto Rey quanto il travagliatissimo Kylo Ren. Il solo paragone con la truzzaggine di Darth Maul fa sinceramente sorridere, ancora complimenti a J.J.






Non mancano i problemi, come l'approccio alla storia che è troppo richiamato alla struttura e all'evoluzione di Episodio IV: non che sia un male in toto, ma c'è da riconoscere che la sceneggiatura non si muove praticamente mai da binari conosciuti, e nonostante alcune scene siano scritte in maniera divina (soprattutto quelle più intense, come i combattimenti a spade o il confronto Solo-Ren), questo elemento fa da contrappeso negativo alla scorrevolezza del film. Alcuni momenti comici sono un po' sottotono: i dialoghi sono scritti bene ma le tempistiche non sempre convincono, specialmente in alcune scene che vedono Finn al centro dell'attenzione.
Kylo Ren con la maschera puramente scenica è una licenza poetica, ma considerata la differenza contenutistica del personaggio rispetto a Darth Vader c'è da considerare l'incertezza come del tutto veniale.

Nel complesso J.J. schiva una serie di pallottole nel secondo tempo grazie ad un sapiente utilizzo del materiale a disposizione: far morire Han Solo, per quanto ad un certo punto scontato, è una scelta che denota interesse per il nuovo e per il futuro che la serie sarà chiamata ad esprimere in Episodi VIII e IX. Molto meno coraggiosa, per non dire inutile, la costruzione di una ben poco affascinante "Morte Nera 2.0" più grande e cattiva della precedente ma debole allo stesso modo. Va anche riconosciuto che la questione occupa davvero 3 minuti di film, a riprova che gli stessi autori probabilmente non avevano intenzione di dargli una enorme importanza al di là del richiamo palesemente fanservice.

Gli attori ce la fanno tutti: Adam Driver e Daisy Ridley sugli scudi. La seconda con qualche incertezza ma in ogni caso gran lavoro. Driver è fisionomicamente perfetto per il personaggio che gli hanno cucito praticamente addosso. Non si commenta il solito, mitico, incommensurabile Harrison Ford.

E complimenti al John Williams: sottovoce ha costruito alcuni accompagnamenti di tutto rispetto.
C'è qualcuno che si è lamentato del politically correct: eroina donna, spalla nero, probabile inciucio amoroso non concretizzato (o sì?). In questi casi tiro sempre fuori l'esempio della Divina Commedia. Non per fare un paragone del tutto improbabile tra Dante Alighieri e J.J., ma per ricordare a tutti quanto ogni opera sia sempre figlia del suo tempo, indipendentemente dagli stereotipi che esso propone e da quanto essi siano di nostro gradimento. Ci interessa qualcosa nella valutazione del prodotto finale? Non direi. 

E' un capolavoro? Secondo me no, ci sono degli elementi che smorzano un po' troppo gli aspetti positivi, e soprattutto c'è uno stacco tra un primo tempo praticamente perfetto e una seconda parte che riesce nello scopo ma che vista la prima generava già aspettative di platino. Bravo J.J., ancora una volta. Vogliamo Episodio VIII!




venerdì 27 novembre 2015

Dividere i genitori, amputare il cuore dei figli



E' un pensiero breve, ma lo esprimo con questo video:



Qui l'attrice Ambra Angiolini, fresca separata dal marito Francesco Renga, recita contro la cosiddetta alienazione parentale, un fenomeno complesso che nella fattispecie riguarda un aspetto ancora più specifico, ossia quando, in caso di divorzio, i figli si ritrovano a vivere con uno solo degli ex-coniugi, relegando l'altro ad un ruolo di serie B o addirittura sporadico. Il risultato è che il figlio, in pratica, cresce senza un genitore.
Tutto è stato realizzato in occasione dei circa 10 giorni, dall'8 al 18 novembre, in cui l'associazione Doppia difesa si è attivata contro quella che è a tutti gli effetti una violenza.

Lo spot in sè ha un valore importante in un'epoca in cui nessuno o quasi dà valore non solo all'infanzia e alla crescita, ma anche alla vita a prescindere: si legga l'apriorismo con cui si accetta un dramma assoluto come l'aborto, verso soggetti che tra l'altro non possono esprimere il loro bisogno, prima che desiderio, di vivere (sintomatico e comodo che a sostenerne la liceità siano persone "già nate", ma questa è una lieve, seppur decisa e inflessibile, digressione). Tutto ciò però non mi frena dal sottolineare la mancanza di strumenti legali per contrastare non solo l'alienazione parentale, ma anche e soprattutto le esigenze logistiche del coniuge senza l'affidamento.
Non esiste, infatti, alcuna legislazione nazionale al mondo che, ammettendo il divorzio, preveda un reato penale per il genitore che, ottenuto l'affidamento, si allontani geograficamente in modo consistente dall'ex marito o ex moglie. Una questione che va ben oltre la pubblicità "progresso" pubblicata sopra. Probabilmente perchè non riguardante una fetta significativa di persone, è verosimile pensare che il caso non sia così frequente. 

Ciò non lo rende meno grave, ma anzi un elemento su cui smuovere l'insensibilità pressochè totale delle masse e dei mezzi di comunicazione. Un mondo più giusto dovrebbe costringere il genitore separato e titolare dell'affidamento non solo a non porre alcun paletto nella frequentazione dell'ex compagno/a, ma anche impedirgli tassativamente di trasferirsi lontano da lui, in un'altra città o addirittura in un altro Paese. Situazioni che troppo spesso ci hanno reso testimoni di figli con genitori divisi addirittura in due parti del mondo, senza che nessuno si indigni per questo ennesimo crimine contro l'infanzia.

martedì 17 novembre 2015

Prosa di elogio per un autore sensibile




Auguri a Carlo Verdone, uno dei più grandi maestri sottovalutati del nostro tempo, di cui sono onorato di sentirmi grandissimo fan da sempre, apprezzando la ignorata sperimentazione presente in quasi tutte le sue pellicole e la spiccata sensibilità sociologica sempre dimostrata anche nei suoi peggiori lavori. Agli auguri aggiungo l'auspicio che una mente vivace e culturalmente profonda come la sua ritrovi l'ispirazione smarrita negli ultimi 14 anni, dove a parte un paio di film siamo ben distanti dai livelli artistici raggiunti negli anni Ottanta e Novanta.

Ricordo quella sera del 19 febbraio 2013 come se fosse ieri: giornata di memoria, nostalgia, ricordi rifiniti della mia famiglia e della mia educazione giovanile. Una famiglia, la mia, da sempre legata all'italianità. Ebbene io, come mio padre, come la mia famiglia, ci riconoscevamo nel romano Alberto Sordi quanto nel napoletano Totò o nel lombardo Tognazzi, e a me, unico superstite, riesce oggi difficile credere che esistano molti che non lo facciano più.

La succitata memoria riporta alla mente la mia passione per la commedia all'italiana degli anni monocromatici, quelli che mi sono stati raccontati ma che non ho mai vissuto nè respirato.
Gli anni di Antonio de Curtis, di Vittorio De Sica, ma soprattutto di Alberto Sordi. Al contrario di molti compaesani, cresciuti nel mito di Totò, il sottoscritto ha sempre subito maggiormente il fascino irresistibile del comico romano. Non era questione di stabilire chi fosse migliore o peggiore, perchè diciamola tutta, il Principe napoletano probabilmente superava qualsiasi attore cinematografico e teatrale mai nato in Italia.
Era una questione di impronta, di quello strano destino che a volte conduce i miti verso una gloria minore e i grandissimi, ma leggermente meno "stellari", ad avere una carriera impeccabile. E Sordi, senza ombra di dubbio, apparteneva alla seconda categoria. Il Principe, nonostante viaggi frettolosi tra un contratto e l'altro, rimarrà  il miglior attore italiano della storia. 
Albertone ha inanellato invece un gran numero di capolavori o, molto spesso, film di indubbio valore sociologico, anticipando in questo il presunto e rinnegato erede Verdone negli anni Ottanta. Dalle popolari vicissidutini de Il Vigile ed Il Conte Max  fino ai drammi di Tutti a Casa e La Grande Guerra, per non parlare del sottovalutatissimo cult grottesco di Ettore Scola La più bella serata della mia vita, ed altri ancora.

Quella sera si commemorava la sua morte con un documentario, girato (lo si vedeva) con emozione dall'erede rinnegato, che amo per motivi simili ma evoluti rispetto a quelli che mi avevano avvicinato ad Albertone. Il fulcro, tra flashback e sketch passati, la meravigliosa "villa galleria" di Sordi, tornita di sale da pranzo sontuose, camere da letto pittoresche e uno sfavillante teatro personale, con tanto di camerini dedicati.
Nel finale, tra passi de Il Marito e de Il Marchese del Grillo, la chiusura di campo sulla saletta personale, memorabile impronta di una residenza che, quando sarà, dovrà assurgere al ruolo di Museo che tutti gli spettatori in sala hanno immaginato potesse un giorno diventare.

Usciamo dal cinema attoniti e parzialmente commossi. Percorriamo Piazza Cavour per avviarci verso l'automobile parcheggiata parecchi isolati più avanti, scorgiamo Carlo Verdone che tornava nel cinema per presentare lo spettacolo delle 21:30. Titubo, avevo portato una macchinetta fotografica ma per un secondo ho pensato di non osare. Un secondo durato un'eternità!

"Signor Verdone!" abbandonando una colloquialità ipotetica che non so perchè mi ha sempre ispirato in passato "complimenti vivissimi per il documentario! La farebbe una foto con me?"

"Eh ma mi aspettano, come faccio..."Un po' intristito ribatto "non fa nulla, non si preoccupi!" con l'intenzione ferma di non sembrare invadente.

"Vabbè, dai, un attimino!" mi dice sorridendo...Chiusura ideale di una serata indimenticabile.

Ciao Carlo, spero di avere occasione di rivederti dal vivo, è stato un vero onore. 









venerdì 16 ottobre 2015

Una settantennale educazione alla distruzione



Leggevo questo post di La via culturale al Socialismo, un blog abbastanza famoso per le ironie dirette alla cultura di sinistra italiana, alla sua arretratezza e ai pochi dogmi che ancora sopravvivono nella sua essenza politica.
L'articolo, piuttosto breve, polemizza contro lo Ius Soli, quindi contro il diritto di essere italiani per semplice nascita sul suolo nazionale senza che vi sia alcun legame culturale e sanguigno con i cittadini. Non si concentra sulle ragioni morfologiche e assolutamente folli che motivano l'ostilità all'assurdo iter legislativo iniziato dal governo Renzi appena due giorni fa. Poco male, perchè questo passaggio è da condividere con le unghie:

Con la battaglia contro lo ius soli si dovrebbe rimarcare per una volta che essere cittadini del mondo è un concetto aberrante, che volere un mondo uguale è un concetto aberrante, che il voler mescolare le culture distruggendole è un concetto aberrante. Lo ius soli, presente, non a caso, solo nelle Americhe è l'anti-tradizione, l'anti-regionalismo, l'anti-particolare; lo ius soli è il generale assoluto, è la rimozione di un'ulteriore barriera verso il capitalismo perfetto, quello senza Patrie e senza storie.

Il punto dolente è l'inizio che fa comprendere quanto la cultura distruttiva anti-nazionale abbia avuto tale spazio di manovra da penetrare nelle coscienze anche di chi, come me e pochi altri (quali sono gli autori di questo sito) provano a resistere a quelli che sono diventati dei veri dettami religiosi:



Non solo l'Italia, ma anche l'Europa è Strapaese. L'Europa è terra di mille campanili, l'Europa è un mosaico perfetto di bellezza. Non esiste il popolo europeo, e nemmeno il popolo italiano, esistono i popoli europei e i popoli italiani.

Ora, per quanto questa affermazione sia da intendersi come introduttiva, nella sua piccolezza dimostra quanto i grossi problemi negli anni si siano approfonditi, visto che non è vero che non esiste un popolo italiano. Questa debolezza iniziale dello scritto di cui sopra asseconda un processo culturale che, gradualmente, ci ha portato allo scempio della legge appena approvata in prima lettura.

Crederlo significa cedere alle suggestioni nate, inutile girarci troppo intorno, dall' 8 settembre 1943 in poi. Da quella frattura nazionale mai ricomposta, culminata con una sconfitta militare terribile che qualcuno ha addirittura cercato di trasformare in un successo. Quello spartiacque a partire dal quale si è discusso praticamente tutto, perfino Rinascimento e Umanesimo. Perfino la cultura della pasta è stata messa (ogni tanto) in dubbio, se si pensa alle frivole "gare" che nella cultura popolare (in particolar modo televisiva) vengono fatte per trovare anche nella gastronomia tradizioni locali anche quando ormai ampiamente sdoganate a livello nazionale.

Non parliamo nemmeno della lingua, attaccata da ogni fronte, rendendo specifico un caso italiano che non è un caso per niente: si parte dal famoso 2% di italofoni del 1860 del linguista Tullio De Mauro ad altri numerosi scempi culturali. Purtroppo promossi da professionisti di prim'ordine (che quindi hanno il difetto ancora più grande di essere presi sul serio) come De Mauro stesso che, pure essendo un grande professionista, non riesce ad arrivare al dato basilare che qualsiasi stato preunitario avesse come lingua ufficiale l'italiano e che l'unico motivo per cui questo non era diffuso era che mancavano le scuole. O che nelle stra-unite, da secoli, Inghilterra e Francia le masse non parlassero inglese e francese fino al XX secolo, e il motivo era sempre lo stesso: perchè non c'erano le scuole neanche da loro.
Le differenze che ci sono qui non sono inesistenti, altrove, tra un bretone e un provenzale, tra un sassone e bavarese. Quello che con insopportabile insistenza si descrive dell'Italia la descrivono alla stregua di una Nazione senza storia, dandole, spesso, addirittura meno valore che degli Stati Uniti. No, signori miei, quella di cui parlate aveva altre caratteristiche, si trovava al di là dell'Adriatico,  si chiamava Jugoslavia ed è morta da 20 anni a seguito di un sanguinoso conflitto interno. Noi siamo qualcos'altro.

Se qualcuno pensa davvero che Francia o in Germania (per citare uno degli stati nazionali più antichi e uno dei più recenti, insieme al nostro) siano piene di realtà locali fotocopia l'una con l'altra ha sbagliato proprio non solo la storia, ma il concetto del reale.

Esiste un popolo italiano (il che non esclude affatto che vi siano genti anche differenziate a comporlo) esistono dei popoli europei. E lo Ius Soli è uno scempio.



 

martedì 13 ottobre 2015

Il giorno del male e del bene. E se il bene è italiano non è mai al completo




Un piccolo pensiero sulla giornata politica di oggi, fatta di due cose contrapposte, la follia assoluta fuori dalla geopolitica e la logica di chi non ce la fa più a tirare avanti. In parole povere Ius Soli e riforme costituzionali, tanto lontane quanto inevitabili. Alfa ed Omega, come si suol dire spesso.

Facciamola semplice sul primo punto: dare la cittadinanza a tutti è una follia, un passo ulteriore verso l'abolizione delle regole. Sì, gli economisti filosovietici (o filocomprati, tanto l'effetto è lo stesso: è l'unica opinione che viene diffusa a livello europeo e soprattutto italiano) continuano ad essere braccio destro della propaganda pro-invasione, ed esaurite le precedenti carte ora si giocano quella della diminuzione demografica nei prossimi 50 anni (un dato scontato che qualsiasi demografo conosce da almeno 40 anni, ma loro ci hanno messo un po') che ci imporrebbe di farci invadere dalle etnie del resto del pianeta ma ehi, manco a parlarne di preservare le nostre, che avere idee anche solo parziali di politiche sulla natalità è fascista, non sia mai.
Nella loro prospettica visione diminuire una densità demografica che scoppia da decenni è inoltre una brutta cosa, e deduciamo - rigorosamente adesso che serve - che paesi come Svezia, Norvegia o Danimarca o Svizzera siano delle aree depresse, in quanto non esasperatamente popolate, anche se chiunque di noi (milionari esclusi) sognerebbe di avere anche la metà del loro reddito pro capite. A queste fandonie rivestite di tecnicismo (che ben si accoppiano a quelle intrise di moralismo secondo le quali bisogna accogliere all'infinito profughi che spesso muoiono per strada, invece di aiutare i paesi di origine a risollevarsi e a stabilizzarsi per, magari, non farne morire proprio più), al bisogno culturale della sinistra di divenire maggioranza storica del Paese (obiettivo che viene perseguito da almeno vent'anni con la strategia di favorire nuove cittadinanze a volontà e presentarsi come coloro che hanno regalato il diritto di voto ai nuovi italiani) viene incontro l'approvazione alla Camera dello Ius Soli, ossia il diritto di cittadinanza per semplice nascita sul suolo italiano, senza alcun legame di parentela con italiani e senza nemmeno bisogno di arrivare all'adozione. Solo con l'ultimo punto si spiega come una volpe quale Matteo Renzi possa aver promosso un pasticcio al di fuori della storia contemporanea di tutti i Paesi europei medio-grandi, la cui densità demografica è così elevata per cui, senza essere dei geni, non è difficile comprenderne la miopia assoluta. Certo, fino a che non ci sarà quel calo demografico che secondo i sedicenti economisti dovrebbe farci precipitare nello strapiombo della possibilità eventuale di essere di meno e con redditi pro capite elevati di cui non ci sogneremmo mai di dimenticare l'eventualità (escludendo sempre a prescindere l'idea di continuare ad esistere come etnie, ma quello, dicevamo prima, è troppo fascista). Nel frattempo, fino ad oggi, gli unici ad applicare lo Ius Soli sono stati i francesi, per di più alla luce di una storia di rapporti ex-coloniali ben nota, ma chissà, guai a dire che attuino una politica totalmente fuori dalla logica, magari imitarli sarà di buon esempio per tutti. Tutto questo mentre Stati Uniti e Australia stringono le proprie maglie, nonostante la promessa di Washington di accogliere un certo numero di rifugiati nord-africani nei prossimi 10 anni: le chiacchiere sono facili, chi corre forsennatamente per farsi invadere, però, è l'Europa, un continente che non può neanche lontanamente sognare il paradisiaco rapporto di abitante per chilometro quadrato che c'è negli USA e - manco a dirlo - in Australia. Vabbè.



L'altra faccia della medaglia sono le riforme costituzionali, approvate in parlamento con 179 sì, 16 voti contrari e 7 astenuti. Ci siamo? Per come la vedo io, ben poco. E' un inizio di semplificazione, estremamente contenuto, per il quale Renzi e il suo governo hanno dovuto sudare non sette, ma diverse decine di camice, trovandosi per di più di fronte allo spettro della ghigliottina referendaria che già tagliò la testa a chi li ha preceduti.
Si riducono i senatori e si inglobano nel ruolo i governatori locali. Si elimina il potere paritario dell'assemblea anziana, quindi il famigerato bicameralismo perfetto. Qualcosa - indubbiamente - è.
Ma i problemi della folle costituzione democratica italiana sono molti di più. La riforma del 2005 proponeva di abbatterne almeno una buona metà: si riducevano i parlamentari anche in quel caso, e pure in modo consistente, ma soprattutto si puntava alla responsabilità di governo e al mandato elettorale ben più diretto verso il presidente del consiglio. Soprattutto si riabilitava un concetto fondamentale: quello della possibilità, per il governo, di fare il proprio lavoro, di essere responsabile di fronte al Paese solo a mandato scaduto e non prima, quando in teoria dovrebbe essere impegnato a gestire e ad eseguire le leggi, non a trattare con le minoranze parlamentari e con i cortei in piazza. E' vero, non era un presidenzialismo completo, somigliava al famoso vice-presidenzialismo alla francese, con presidente della Repubblica e del Consiglio ancora entità distinte e, soprattutto, con il primo ancora eletto dal Parlamento e non dal popolo. Quella riforma, che avrebbe risolto molti (anche se non tutti) dei problemi di ingovernabilità che l'indifendibile Costituzione italiana ha generato (a differenza di praticamente tutte le sue colleghe occidentali, sempre democratiche ma non stupide, per utilizzare un'espressione facile) dal 1948 in avanti, è stata bocciata senza appello dal referendum del 2006, schiacciata da una propaganda distruttiva a favore, ancora una volta, di un immobilismo di cui gli italiani come popolo non tengono mai conto, a differenza delle bollete che, spalleggiati da media populisti, puntualmente chiedono sempre alla classe politica additandola come sola responsabile della situazione in cui ci troviamo. Comodo.
La riformina di Renzi, davvero minuscola rispetto a quella del 2005 ma che pure propone semplificazioni importanti (avere iter legistlativi più snelli è sicuramente un punto a favore quanto meno per la velocità del lavoro di presidente, ministri e parlamentari che ricordo, paghiamo sempre con i nostri soldi) dovrà affrontare lo stesso gigantesco ostacolo. Stavolta le opposizioni dottrinali sono di meno, nonostante l'assurdo parallelismo il fiorentino non è considerato come Berlusconi e, soprattutto, non viene da destra, almeno in via ufficiale. Tutti fattori che possono aiutare a superare l'ostacolo insormontabile del Referendum. Auguri, signor Matteo.

mercoledì 9 settembre 2015

Russia mia, c'eravamo tanto amati...ma alla fine fu soprattutto Storia.


Ripropongo (con qualche lieve modifica temporale) uno scritto che redassi al ritorno dal mio viaggio in Russia dell'estate del 2010, fin'ora confinato - piuttosto scorrettamente, a mio giudizio - tra le note di Facebook come un appunto qualsiasi. Qui credo abbia la collocazione più consona al valore che rappresenta per il sottoscritto.

Quando sono tornato in Italia, quel lunedì all'aeroporto di Fiumicino, ad ora di pranzo, la prima cosa di cui ho sentito un disperato bisogno è stata una bella accoppiata Cappuccino-Cornetto come non mi accadeva da tempo, e soprattutto mai alle 13:00 in punto. E' il primo residuo di due settimane passate all'ombra (si fa per dire) del Cremlino.
Questa semplice constatazione ha poco a vedere con le mie prossime considerazioni su quello che è stato, probabilmente, il viaggio da me più atteso fin dalla nascita. Per motivi di studio, di interesse, di curiosità eminentemente storiche, ma anche per il semplice desiderio di camminare, per una volta, tra le strade di quella che, erroneamente a mio giudizio, viene definita "la falsa Russia". 

Mosca viene descritta come una città occidentale, distante da quella che è la vera tradizione russa, come una copia fedele dei nostri modelli di urbanizzazione. Niente di più falso.
O meglio, lo è in superficie, quando si guarda al vestito, ma non alla sostanza al di sotto di esso, che inizia a rendersi evidente solo osservando più approfonditamente, scambiando quattro chiacchiere in un bar o in uno dei numerosissimi locali che popolano la capitale russa. Certo, Mosca è una città entrata appieno nel circuito della globalizzazione novecentesca ed attuale, è quindi naturale che ne mostri i segni in maniera anche piuttosto evidente: ciò non toglie che le molteplici tradizioni siano ben visibili, acuendo appena appena i propri sensi. 


La prima cosa che balza all'occhio di Mosca è la sua area metropolitana, semplicemente immensa. Non si tratta "solo" di dimensioni, ma di particolari, di distanze percorribili a piedi, di metri che andrebbero tranquillamente riscritti con un'unità di misura appositamente studiata per l'ex-capitale sovietica. Con le sue oltre 12 linee, la metropolitana è una vera e propria città nella città, non solo un mezzo di trasporto. 


La gente fa di tutto in metropolitana: lavora, mangia, beve, si ritrova per chiacchierare, si da appuntamento nelle zone centrali delle varie stazioni, probabilmente si scambia addirittura promesse di matrimonio. E' una vera e propria vita autonoma, sconosciuta (per lo meno in questi termini mastodontici) all'europeo occidentale, probabilmente vicina a quella che è la concezione americana del mezzo pubblico e dell'estensione urbana.
Esteticamente è un monumento non descrivibile con le semplici parole. Le stazioni più moderne e periferiche lasciano piuttosto indifferenti e non hanno nulla che non si possa ritrovare nelle nostre metropolitane (anzi, visivamente sono fin troppo grezze), ma quelle centrali sono un inno, un canto, davvero meravigliose. 



Si sprecano i riferimenti alle rivoluzioni russe di primo novecento, non soltanto a quella sovietica. La stazione di Kol'cevaja (in foto) è qualcosa che mozza il fiato, in generale le prime due linee, la rossa e la verde, sono un manifesto di architettura classica mai visto in nessun'altra parte del mondo: un vero capolavoro.
Dicevamo, le rivoluzioni russe. Non solo quella sovietica: affreschi, riquadri scultorei spesso rimandano alla rivoluzione del 1905, continuamente ricordata come punto di passaggio essenziale nel cammino che avrebbe condotto il paese verso il socialismo e il conseguente comunismo. 

Da simili particolari si deducono, progressivamente, tanti caratteri distintivi del popolo e della mentalità russe, soprattutto riguardo alla politica. Girando per Mosca ci si rende conto di trovarsi in una città che non si dichiara più la capitale del socialismo mondiale, ma che è anche capace di non rinnegare nulla (e intendo nulla) del proprio passato. L'URSS è stata una pagina anche umanamente tragica della storia russa: eppure, nonostante questo, i suoi simboli non sono scomparsi del tutto, dai piccoli stemmi ai lati dell'attuale Duma, alle già citate effigi nelle stazioni metropolitane, fino ad arrivare al mausoleo di Lenin e addirittura al busto di Stalin, ancora presente nel cortile posteriore alla stanza funebre del leader del 1917. 

Credo senza mezzi termini che noi italiani dovremmo imparare da questa mentalità. Non si tratta il solito polpettone anti-nazionale: i russi si potrebbero considerare peggiori in moltissimi aspetti, ma una simile concezione della storia, del passato, e delle proprie radici noi non riusciamo ad esprimerla. 

Chi mi conosce sa benissimo cosa pensi del comunismo e quale giudizio storico ne abbia. Credo sia molto complicato salvarlo, per lo meno nella sua versione ortodossa: nonostante alcuni intenti fossero nobili, ne ho sempre criticati altri ben meno etici e secondo me sottaciuti (come l'invidia sociale e la lotta di classe). Delle morti tragiche avvenute durante la sua esistenza mi sono interessato il giusto.

In ogni caso, ciò non toglie che la mia analisi e la mia valutazione di un pezzo di storia come quella dell'URSS non si discostino poi tanto da quello delle classi dirigenti russe che si sono affermate dopo il crollo. E' giusto, sacrosanto, mantenere i simboli di una storia tanto importante. E' corretto ricordare Lenin, personaggio di spicco che rappresenta, nel bene e nel male, una svolta assolutamente unica nella storia russa e (mi spingo anche oltre) sarebbe doveroso dedicare interi musei a Stalin, in quanto simbolo assoluto della modernizzazione russa, colui che, non badando alla moralità di alcuni mezzi, ha letteralmente stravolto il profilo urbanistico di una nazione, trasformandola in meno di un decennio in un paese a forte vocazione industriale. Chi ha un po' di sale in zucca dovrebbe riuscire a scindere l'aspetto morale di certi eventi dal peso squisitamente storico. Quello che è stato capace di fare Stalin è troppo evidente, impossibile da mettere da parte o da dare in pasto solo alla critica morale spicciola, perchè di tale si tratta. 

Ovviamente tutte queste considerazioni trovano origine nelle mie discussioni con alcuni russi, che in qualche maniera non hanno fatto altro che confermare le mie deduzioni. Mi rimane impressa la una cena con Alex, un mio coetaneo che, per caso, incontrai tra i tavoli di un pub vicino all'istituto dove, tra mille difficoltà, cercavo di barcamenarmi nella lingua russa. 

Curiosamente, Alex sembrava un mio coetaneo solo all'anagrafe e nell'aspetto, perchè in quanto ad esperienza di vita avrebbe tranquillamente potuto fare le veci di un fratello maggiore. La nostra chiacchierata fu piacevole, prevalentemente svolta in inglese anche se io, conseguendo per gran parte insuccessi, ogni tanto provavo al lanciarmi nella lingua locale. 

Tra un sorso di birra e l'altro per ciascuno, gli domandai dove fosse stato durante la settimana di quell'agosto del 1991: sbuffa, sorride e definisce quel periodo "Nelieppie dni" che sulle prime non comprendo, finchè non lo traduce con "crazy days". E mi racconta che non solo si trovava a Mosca, ma che era uno dei bambini in pieno centro e che per puro scrupolo i carri armati non affossarono, disobbedendo al cosiddetto "Comitato Rivoluzionario". 

Il giudizio di Alex sull'Unione Sovietica è lapidario, ma sereno. Non si scorge neanche un minimo del risentimento di cui si nutrono le sinistre in Italia quando cavalcano l'onda assurda dell'antifascismo, nonostante il paragone tra le due realtà sia semplicemente improponibile (e pesantemente a sfavore dell'URSS, se parliamo di etica e di morale). Mentre ne discutiamo mi interrompe e dice "ma prima o poi sarebbe caduto comunque. Non era un sistema in grado di sopravvivere" accennando un' espressione che rimandava chiaramente al concetto di "ineluttabilità". 

Anni fa lessi di alcuni sondaggi statistici svolti in Russia negli anni '90, in una fase in cui, com'è ovvio, in molti si chiesero se il popolo avrebbe richiesto a gran voce la democrazia, e quanto fosse interessato ad essa come forma di governo. I risultati furono alquanto scoraggianti: circa il 55% degli intervistati nel 1993 e nel 1997 si dimostrò sostanzialmente indifferente al problema. In buona sostanza, ai russi della democrazia non importava nulla, erano soltanto interessati alle libertà economiche. Alex parve confermare quei sondaggi, perchè quando gli parlai di democrazia e di quanto ne avvertisse la necessità in Russia, dimostrò una sostanziale noncuranza. 

Non per diprezzo nei riguardi del concetto, ma perchè era profondamente convinto della sua inapplicabilità, ed è a tal proposito che mi pose, sorridendo, una domanda ironica "ma che cos'è la democrazia?". 
Gli risposi che concordavo pienamente con lui sul fatto che essa, nella realtà, fosse poco più che un fantasma, ma anche che ci sono dei regimi (che definisco "oligarchie elettive") che oggi si prestano alla definizione di democrazia più di altri, come ad esempio la Russia. A quel punto la conversazione si arena, perchè entrambi ci rendiamo conto che la libertà di parola riguarda, in effetti, soltanto le chiacchierate tra gli amici, sia nella democratica Italia che nella "democrazia autoritaria" russa, e che in tal senso le differenze siano piuttosto labili. 

Nessuno, a livello mediatico, può realmente dire quello che vuole. O meglio, può dirlo nell'ambito di un contesto più grande, composto di orientamenti e direttive per larga parte ottimizzati, indi poco propense ad accogliere le voci dei singoli. Da post-fascista, conosco bene il problema, anche alla luce delle mie conoscenze e di quanto queste abbiano faticato a farsi strada in un quotidiano sportivo, a causa della loro provenienza politica.

Alex si dimostra piuttosto preparato sui temi della politica e della storia, e manifesta anche un certo orgoglio quando gli accenno alla reazione russa degli ultimi anni, in cui la Federazione si era dimostrata piuttosto determinata a non lasciare più campo libero agli USA negli stati confinanti, residui dell'impero sovietico. Parliamo della guerra dell'Ossezia del Sud, dei muscoli mostrati dal Cremlino in quell'occasion. "Siamo russi. Non abbiamo voglia di lavorare e pensiamo solo a divertirci. Ma non vogliamo essere sottomessi da nessuno". Una delle frasi più fiere e orgogliose che abbia mai sentito in vita mia. 

Che i russi non vogliano lavorare è un dato evidente, in ogni caso. Gran parte di quelli con cui ho avuto modo di parlare erano precari, scansafatiche, o disoccupati. Mentre le donne, quasi sempre, appartenevano a categorie lavorative più professionali. Ne ho tratto la netta impressione che in Russia sia proprio il "sesso debole" la vera forza trainante della società, quella che produce, consuma e fa crescere il reddito pro capite. Sono anche le donne le depositarie di molte delle tradizioni, evidenti anche girando in metropolitana o per la piazza rossa. Non si contano, ad esempio, le ragazze russe accompagnate da signore più anziane: le poche volte in cui ho avuto occasione di chiederlo, si sono rivelate le loro nonne. E' una specie di consuetudine, stare insieme alla propria nonna per fare la spesa, per andare a comprare un vestito o per sedersi semplicemente al tavolino di un bar. Una volta ho incontrato anche un papà con la propria figliola, durante uno dei numerossissimi viaggi in metro, ma suppongo sia stata un' eccezione, anche se il modo in cui si comportavano ricordava molto quello
delle accoppiate esclusivamente femminili. 
Altro cardine delle relazioni tra nonne e nipoti è il dono degli anelli. Me lo conferma Elena, una ragazza con cui uscii un pomeriggio nel bellissimo parco di Vorobyovy Gory, proprio di fianco al Volga. Mi mostra, un po' imbarazzata, un anello che le ha regalato sua nonna, e mi conferma che molti in Russia conservano tutt'oggi questa tradizione. 

Ma ci sono anche usi e costumi non squisitamente femminili, di valenza sociale collettiva e, diciamolo, anche piuttosto impressionanti. Una sera esco con un'altra ragazza di provenienza ucraina e andiamo a sollazzarci in uno splendido ristorante del suo paese. Per il ritorno, Lariza (si chiamava così) mi propone di prendere un "Taxi" non ufficiale, ma nemmeno abusivo: in pratica, è sufficiente mettersi sul bordo della strada e chiedere un passaggio ad un qualsivoglia autista, dopodichè si contratta un prezzo (in genere inferiore a quello dei tassisti regolari e degli abusivi "reali") per essere condotto a destinazione. 

Sulle prime spaventato, nei giorni successivi ho fatto caso maggiormente a questa usanza: è praticata da tutti, persone abbienti o di grado sociale basso, tanto nelle zone malfamate che in quelle più nobiliari. Più volte nella lussuosissima Kitai Gorod ho visto persone con il pollice sollevato contrattare prezzi e destinazioni con autisti sconosciuti, come se nulla fosse. Nell'ultimo giorno, ho "usufruito" anche io di questo servizio, andando all'aeroporto insieme ad una ragazza francese, dividendo il costo della corsa. Sconvolgente.

Chi dice che le donne russe siano tutte "facili" dovrebbe rifare i propri calcoli, mi sento di smentire categoricamente questo luogo comune. Semplicemente, la mentalità dominante impone di uscire subito con qualcuno che si trovi gradevole esteticamente, cosa che, in Italia, non avviene affatto, o per lo meno non con regolarità. E un assenso non vuol dire disponibilità a proseguire, ma solo ed esclusivamente voglia di conoscere. Ho sentito di persone che andavano in Russia ottenendo rapporti sessuali come se nulla fosse. 

Dalla mia esperienza a suo tempo ricavai che ognuno, con il suo atteggiamento, trova ciò che cerca e merita (con le dovute limitazioni di quella cosina che si chiama vita), perchè nel mio caso il festival del sesso è stato appena accennato, e su un piano secondario rispetto al dialogo e alla conoscenza di persone che, come in tutti i posti del mondo, si sono rivelate buonissime, cattivissime, superficiali, troie ed anche approfittatrici a seconda dei casi. Di sicuro c'è una cultura dell'appuntamento molto più approfondita, schietta e sincera di quella esistente in Italia (e in Occidente in generale), dove anche quando una donna trova interessante un uomo si fa pregare non una, ma cento volte prima di mostrare disponibilità ad una semplicissima e banalissima cena da appuntamento. Mi sentirei di opporre al luogo comune "le russe sono tutte facili" un bell' "le italiane sono tutte false", ma spero sia chiaro l'intento estremizzatore dell'affermazione, che non corrisponde assolutamente al mio pensiero.

Indubbiamente, la moda estetica ha contribuito alla diffusione di questi luoghi comuni. In Russia, l'eleganza è esclusivamente femminile, gli uomini non hanno nemmeno idea di cosa significhi vestirsi (e detto da uno che non spicca certo sotto tale profilo è ancora più grave). Tuttavia, anche l'eleganza femminile è incostante e non ha mezze misure: o semplicemente impeccabile (sebbene vi sia una mescolanza di colori completamente diversa da quella che siamo soliti osservare dalle nostre parti) oppure volgare senza ritegno, al punto che alcune russe potrebbero davvero essere scambiate, appunto, per le passeggiatrici da marciapiede nostrane.


Un cenno particolare alla meravigliosa Biblioteca Lenin va sicuramente fatto: un vero e proprio pozzo senza fondo che non è riuscito (per ovvi motivi) ad esaurire le innumerevoli curiosità per i periodi storici che avrei desiderato studiare più approfonditamente, ma che mi ha consolato per la presenza di un discreto quantitativo di materiale inglese, della cui esistenza sinceramente non speravo nemmeno.
Alcune considerazioni generali riguardano il ruolo che questo paese potrà avere nella politica internazionale nei prossimi anni. Che gli USA siano prossimi a non essere più la sola superpotenza è ormai chiaro a tutti, ma in molti pensano che il loro prossimo avversario potrebbe essere la Cina.
Io sono abbastanza convinto, invece, che proprio il Cremlino potrà ancora una volta essere il vero antagonista della politica di Washington. Lo dimostrano la crescita del Pil, dell'apparato militare, la assoluta inflessibilità sulle questioni ucraine e bielorusse, l'intenzione di abbracciare nuovamente, in qualche maniera, le ex-repubbliche baltiche. Senza contare che, questa volta, l'appoggio della popolazione è pressoché incondizionato, e che una zavorra ideologica che pesava molto sulle potenzialità produttive di un paese ricco di materie prime e di giacimenti energetici è ormai stata scaricata da tempo.


Che dire? L'ultimo paragrafo direi che viene confermato dal terribile casino che si sta verificando negli ultimi anni, tanto sulla questione ucraina che su altro. Speriamo di non essere ulteriormente profetico in senso troppo negativo.

domenica 23 agosto 2015

Giocare (e soprattutto finire) Panzer Dragoon Saga nel 2015


Così, sparato nel titolo. E' il primo pensiero che mi è venuto in mente, ma alla fine l'ho fatto. Il gioco lo presi ormai un paio d'anni orsono e non lo misi nella console se non per verificarne la funzionalità, come da protocollo tradizionale di ebay. Insomma, non c'era l'imput, l'ispirazione. Ma sapevo che sarebbe venuta. Il motivo è da ricercarsi nel rapporto di amore che ho avuto con Panzer Dragoon, differentemente dal Saturn di cui non sono mai stato un grande estimatore all'epoca. Tanto nel primo, nello Zwei e anche in Orta per Xbox, lo shooter on rail aveva sempre rappresentato qualcosa di alchemico da cui non mi sono mai liberato. La mia, per ovvie ragioni anagrafiche, non può essere una recensione, ma solo una retrospettiva, una comunicazione di sensazioni per un gioco che si è immaginato per tanti anni senza mai sapere cosa realmente fosse.
Di Panzer Dragoon Saga si è sempre detto di tutto: per anni si è parlato di capolavoro indiscusso, poi qualche vocetta ha insidiato l'idea che l'alone mitologico fosse nato grazie alle condizioni particolari in cui uscì (ultima fase di vita di una console fallimentare come era appunto il Saturn, le pochissime copie distribuite in Occidente) sia grazie al valore collezionistico pazzesco raggiunto negli anni (un copia pal su ebay, oggi, non può richiedere meno di 260 euro).

L'occasione propizia è stata quest' estate, periodo che, di solito, dedico al retrogame, abbandonando quasi del tutto le console e giochi d'attualità. La grafica, devo confessarlo, sembrava un grosso deterrente. Impossibile non immaginarlo dai pochi screen che avevo visto (e mai, sottolineo, un solo video, nemmeno su youtube). Quei personaggi cubettosi e triangolari, quel mondo fatto a blocchi...mai stato più felice di essere smentito. Il cubettoso mondo di Azel ed Edge (i due protagonisti) è in effetti qualcosa di arcaico, un pianeta in cui il bad clipping domina sovrano e il pop up impera. 

Certo è che, per l'epoca, il terzo titolino della saga Panzer non osava così poco come potrebbe sembrare, o quanto meno lo faceva di più di quanto la scarna grafica che si vede oggi lasci immaginare, non solo per una questione di tempo passato. All'epoca, quasi tutti i jrpg erano realizzati con sfondi CG precalcolati e personaggi poligonali (ove non apertamente in pixel art). Ciò escludendo le arene dei combat system che spesso e volentieri, invece, erano poligonali. Non si può non nominare Final Fantasy VII, ma anche titoli come Legend of Dragoon e Chrono Cross usavano la stessa tecnica.

Final Fantasy VII (PSX, 1997)

Chrono Cross (PSX, 1999)

Chi non optava per questa comoda scelta estetica, sceglieva una visuale isometrica dall'alto, meno dettagliata ma comunque ben consapevole dei risparmi in termini di gpu che comportava, dovendo muovere oggetti poligonali il cui dettaglio era direttamente proporzionale alla distanza dalla telecamera e alle dimensioni degli stessi. E qui la mente corre a Xenogears e al famosissimo Grandia.

Xenogears (PSX, 1998)

Grandia (Saturn 1997, PSX 1999)

Questo, invece, è Panzer Dragoon Saga:


Tralasciando le sessioni in volo, del tutto simili ai primi due capitoli shooter, non si può non notare la differenza di ambizione che passa tra i precedenti titoli citati e l'RPG Sega. A partire dalla visuale, spalle al protagonista, mondo da esplorare e oggetti di dimensioni veramente enormi: tutto 3D e ravvicinato. Scelta visivamente orribile, ma coraggiosa come poche altre.
Certo, un Saturn non era un Nintendo 64 e a dirla tutta nella gestione di spazi 3D più aperti e complessi nemmeno una Playstation, era difficile pretendere di più da una macchina che faceva i conti, tra le altre cose, anche con i limiti tecnologici tipici di quella generazione di console. Aliasing dominatore e il bad clipping accennato prima, appunto.




Una generazione sciagurata, dove tra frame rate imbarazzanti (più intollerabili per noi europei, ancora schiavizzati dai 50hz e dalle bande nere) e aspetti visivi francamente stucchevoli ci si accontentava di tutto pur di giocare in 3d. Ne uscì viva solo Nintendo, per ovvi motivi, e sparute eccezioni sulle altre due macchine. Una di queste, nonostante l'aspetto grafico decisamente indecente oggi, è proprio Panzer Dragoon Saga, e non lo avrei mai detto. Primo per la fluidità impeccabile, inchiodata al massimo e chissenefrega, sinceramente, per qualche omino triangolare in più.
Poi per il livello visivo: non mi sono mai sentito un pionere dello stile. Certo, con il progredire della tecnica e la sostanziale inutilità della grafica da buoni 5 o 6 anni, nei videogiochi anche per me la componente stilistica sta assumendo un rilievo sempre maggiore. Ma, detto in gergo, è qualcosa di cui non mi è mai fregato granchè. L'ultima volta che ho giocato un Panzer Dragoon sarà stato una decina d'anni fa.


Quello che mi ha stupito giocando Panzer Dragoon RPG è che nonostante tutto, dai personaggi alle location, non sia altro che un insieme di cubi e triangoli privi di qualsiasi vero dettaglio, la sua bellezza estetica sia palpabile ancora oggi. Viva tanto nella caratterizzazione stupenda di Azel, quanto della carovana, del villaggio di Zoah, delle rovine Uru, insomma veramente tutto bellissimo. Perfino i filmati, palesemente al risparmio di dettagli rispetto a quello che circolava all'epoca. In questo, Saga è un degno erede dei primi due capitoli, che tanto dagli artwork sulla copertina quanto nel gioco vero e proprio, esteticamente facevano la loro porca figura.
In Saga fanno eccezione, forse, i vari npc. Decisamente brutti e anonimi, non sembrano nemmeno appartenere allo stesso gioco, ma questa è una mia sensazione.  E poi, nonostante caratterizzazioni generali tanto sublimi, certo non si può non stridere i denti quando nelle rovine Uru si è costretti ad esplorare un paesaggio completamente vuoto che si "carica" passo dopo passo, in un contesto dove il sempreverde pop up non manca di mostrare i suoi orrori. Non mi ha fatto impazzire il sonoro: musiche orecchiabili, per carità, ma sicuramente meno ispirate di quelle alle quali ha abituato la serie. Vogliamo veramente tirarla per le lunghe e paragonarle a questa roba (tratta da Panzer Dragoon I)?



Il gioco? Non so se sia giusto chiamarlo RPG nel senso del termine (nipponico). Sembra più un'avventura con elementi RPG. Il personaggio è uno, Edge, non esistono party, ma la base è una crescita del personaggio come del drago piuttosto marcate. Il combat system sembra avveniristico perfino per oggi. Sostanzialmente è un incrocio tra tempo reale e turni, strada non certo battuta da tutti all'epoca e sicuramente molto dinamica. Si gira intorno al nemico, si cerca il punto debole, enormi possibilità di non farsi colpire (mai viste in nessun JRPG di mia memoria).




La soddisfazione che danno gli scontri di Azel è pari a quella dei migliori giochi del genere. La controindicazione è che sia tutto troppo facile: le strategie sono evidenti e palpabili e questo le rende davvero affascinanti, ma lo svantaggio è che si arriva alla fine in modo abbastanza semplice.

In effetti, ciò che caratterizza Saga secondo me è l'incostanza, ha dei picchi notevoli come combat system e l'aspetto stilistico (sarò ripetitivo ma è incredibile come un gioco con quella non-grafica, per l'oggi si intende, riesca ad avere una caratterizzazione tanto sublime, e dire che all'epoca non ci facevo per nulla caso), ma anche degli aspetti difficili da interpretare. 
Tipo che a metterci tanto lo si finisce in una ventina d'ore e il fatto che alla fine ci saranno si e no una ventina di location, ben poche per un RPG che però, insisto, non sembra nemmeno troppo RPG: un solo personaggio e non-linearità dell'avventura neanche simulata.
Ma questo Panzer Dragoon Saga è stato davvero un capolavoro? E' difficile dare una risposta perchè non averlo giocato al tempo rappresenta un grosso limite e non permette di fare dei paragoni diretti "contemporanei" con altri giochi del genere. Di sicuro non ha la vastità e la varietà dei progetti più grossi di allora. Ha alcuni momenti di estasi, quei triangoli e cubi disposti in modo talmente sublime da farti chiedere come sia possibile farne una ragione di gioco nell'anno del Signore 2015.

Ci vuole una certa sensibiltà visiva per recepirlo, non penso sia facile per tutti recuperare questo gioco oggi e apprezzarlo davvero superando l'invecchiamento visivo: io stesso mi sono stupito di averlo fatto, soprattutto perchè considero la generazione PSX-Saturn la più ingiocabile in assoluto nel mondo del retrogame.

Sicuramente chi ci riesce dovrà prepararsi anche a dei momenti di gameplay davvero splendidi per un titolo del genere. Sono motivi che da soli bastano sicuramente per iniziare una vecchia gloria videoludica con decenni di ritardo: come ho fatto io, senza essermene pentito neanche per un istante. 







domenica 19 luglio 2015

Waiting for inutili polemiche



Perdonate l'inglesismo, è una pratica che odio con tutto me stesso: ma questo rappresenta uno dei (rari, per fortuna) casi in cui il prestito idiomatico dagli anglosassoni è naturale e non forzato, nonchè utile per rendere l'idea.





Tornando a noi! Il video di cui sopra è il rendering (altro inglesismo, oggi è proprio una pessima giornata) della Stazione Duomo di Napoli (Linea 1), come verrà completata. Si scorge una meravigliosa cupola trasparente in vetro e acciaio per mettere in bella mostra, anche al di fuori della stazione e direttamente sulla piazza, lo splendito Gymnasium o tempio di augusteo: una struttura che accoglieva nell'antichità i giochi olimpici dedicati, appunto, all'Imperatore Augusto.
Semplicemente stupenda e non dovrebbero esistere, in un mondo normale, questioni a riguardo: meglio di Municipio e decisamente superiore ad alcune che non ho apprezzato per nulla tipo Università. Una vera meraviglia storica la cui bellezza in nessuna realtà parallela potrebbe essere criticata.
Ma siamo a Napoli.

Attendo infatti le polemiche inutili dei napoletani incazzati ed esasperati che si lamenteranno, nell'ordine:
  • 1) Del costo proibitivo
  • 2) Dei napoletani stessi che la ridurranno in poltiglia
  • 3) Dei tempi di frequenza dei treni
  • 4) Eventuale utilizzo di materiali scadenti e falle progettuali a causa di assessori, progettisti e ditte corrotte.

Fattore importantissimo: non si lamenteranno di questi fattori nello specifico, ma mettendo in discussione la bontà di tutto il progetto, la sua stessa esistenza. Sarà una pioggia costante di insulti alla stessa esistenza dell'opera, alle modalità con cui è realizzata. Non una parola, per fare il primo esempio che mi viene in mente, sarà sprecata contro i tempi biblici di inaugurazione. 

Insomma, sarà messa in piedi tutta una serie di verità che non c'entrano assolutamente nulla con il valore di una struttura del genere, una delle poche che si costruisce in una città disastrata come Napoli.
Chissà se prima o poi si diffonderà l'idea di mettere in galera gli incivili, i politici corrotti o i lavoratori scansafatiche invece di prensersela con la struttura in sé e con il patrimonio estetico che una città come Napoli dovrebbe mostrare sempre, non facendosi fermare da nessuno dei suddetti soggetti. Sarà chiedere troppo? Chissà.

Chissà se, poi, un miracolo venuto dal cielo porterà ammodernamento nella tristissima Linea 2 del capoluogo campano (una tratta inaugurata durante il fascismo che collega alle estremità i comuni limitrofi di San Giovanni-Barra e Pozzuoli passando per il centro): gestione da terzo mondo di Trenitalia, frequenze dei mezzi ogni 45 minuti (mi chiedo se in Kenya, ammesso che esistano metropolitane di cui confesso di non sapere nulla, se la cavano allo stesso modo), vetture paragonabili alle classiche locomotive regionali. Ma nessuno fa le barricate o si lamenta nei forum per quello scempio.

Meglio irrigidirsi mestrualmente per le stazioni dell'Arte per motivi che non c'entrano nulla con la loro essenza, tipo i treni che non passano frequentemente o i napoletani a cui, invece di augurare una galera perenne e senza sconti, è meglio non dare in pasto nuove strutture e opere pubbliche.