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A Walt Disney Silly Symphony!

sabato 31 gennaio 2015

Quirinale mio, quanta malizia dietro un teatrino di pupazzi indignati

Due righe sul Quirinale dovevo scriverle. Sergio Mattarella da oggi è il dodicesimo Presidente della Repubblica italiana.

In superfice, i soliti dati: parliamo di un democristiano di sinistra che, alla fine della prima repubblica, sceglie la coalizione di centrosinistra e prosegue nella tradizione di capi dello Stato tutti provenienti dalla stessa parte politica (Scalfaro, Ciampi, Napolitano i suoi predecessori).
Dappertutto, in tv come dalle dichiarazioni degli esponenti del centrodestra italiano (dal collaborazionista Alfano, a Berlusconi, Fitto, Meloni e Salvini) un secco sdegno per la decisione autoritaria del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, colpevole di aver proposto un nome unilaterale e di non aver trattato con chi rappresenta almeno una metà del popolo italiano per eleggere un capo dello stato condiviso da tutti. E via con le dichiarazioni solite "Mattarella non è il mio presidente", varie ed eventuali, quel particolarismo che odio e che, da qualunque parte provenga, è il vero male originale di questo Paese.

In profondità, una serie di considerazioni ben più interessanti, a mio avviso.
La prima: la constatazione che il signor Matteo Renzi si conferma politico di razza, ad appena 40 anni, dimostrando perspicacia e capacità decisamente rare per una persona che dovrebbe essere così poco esperta. Si barcamena tra alleanze e decisioni di autorità, prende di petto gli avversari, li sminuisce quando è necessario e li riconduce a sè per lo stesso motivo, fa eleggere un Presidente che gli sarà alleato fino all'ultimo suo giorno di permanenza a Palazzo Chigi, qualunque sia il tempo.
La seconda: chi parla di tradimento dovrebbe sperare di trovarsi di fronte alla caduta del Governo o, al limite, lo stop immediato ad ogni processo di riforma, inclusi quei pochi avviati come quella del Senato. Quindi se i leader massimi del centrodestra (Berlusconi e Alfano) sono così sdegnati, dovrebbero immediatamente avviare un'opposizione oltranzista, se non sull'esecutivo stesso (poco conveniente visti i brandelli attuali che compongono il Centrodestra), quanto meno sul processo di riforme.
La terza: cosa potevano - sinceramente e realisticamente - attendere i signori moderati come candidato? Cosa c'era, in tutta onestà, di meno a sinistra di Mattarella come eleggibile? Mi viene in mente solo un Casini, un democristiano di destra che però è ben lungi dall'essere un garante delle rimostranze dello schieramento moderato, e che non è mai stato in lizza se non nei campi di calcio ironici virtuali allestiti dal signor Bruno Vespa a Porta a Porta.
Poi possiamo discutere fino all'anno prossimo su quanti nomi del centrodestra potessero ben figurare al Quirinale (e sono tanti, come ho scritto in altre occasioni), io stesso continuo nella mia battaglia morale contro una cultura politica che ha monopolizzato tutto e tutti, ma siamo sinceri: di realistico non si poteva fare altro che eleggere un parlamentare del PD il meno a sinistra possibile, quindi un exdemocristiano. Berlusconi ha passato 20 anni vergognosi a farsi dettare legge sulla poltrona del capo dello stato (anche per oggettive sfortune, come il fatto di trovarsi di fronte all'elezione sempre da sconfitto e mai da presidente in carica), e ora si lamenta per un nome che paragonato ai precedenti è una scoreggia?
Quarta considerazione: il bene dell'Italia qual è? Non nascondiamoci dietro a un dito, prima di tutto si deve cambiare la Costituzione peggiore dell'Occidente. Chi dice che le emergenze sono lavoro, occupazione, povertà, ruolo internazionale e via discorrendo, è un cretino. Oppure è in malafede, alternativa purtroppo da non scartare.
Ma concentriamoci sul cretino, che si spera un giorno possa capire quanto l'elenco infinito dei problemi di cui soffre il nostro Paese può essere affrontato in modo migliore in un solo modo: governando. E governare non significa produrre più di 60 governi in 70 anni, con mille ostacoli, opposizioni e accordi. Significa ricevere il mandato elettorale, produrre un certo tipo di azione nei cinque anni che la stessa nostra Carta non riesce a garantire, (da fallimentare qual è) e poi rimandare tutto agli elettori.
Abolire il Senato, sminuirlo, snellire l'iter legislativo è un passo avanti (piccolissimo, minuscolo!) per cominciare a uscire da questo torbidissimo e spinoso labirinto in vita da ormai 68 lunghe primavere. Chi si opponeva maggiormente alla sua realizzazione? Esatto, la sinistra oltranzista che stamattina Renzi ha riavvicinato a sè con l'elezione di Mattarella. La stessa che ha promosso il referendum contro la più colossale riforma presidenzialista e costituzionale mai affrontata dal nostro Paese. Durerà? Forse no. Farà guadagnare tempo e respiro al premier? Sicuramente sì.

Qualcuno dice, a mio giudizio giustamente "Cercasi disperatamente Centrodestra italiano". Ed è vero, come al solito la sinistra monopolizza le cariche, anche quelle che non sono espressione di voto ma di interesse super partes come il Presidente della Repubblica.
Ciò detto, in questo momento è molto più importante fregare i conservatori.
Per ottenere, tra l'altro, un decimo di ciò che ci serve per cambiare la peggiore Costituzione dell'Occidente: in tal senso confermo il mio appoggio a Renzi, ma mi rendo conto di vivere in un Paese che mette sempre in secondo piano il Paese medesimo e in primo sempre la parte politica da cui proviene.
Riorganizzare il centrodestra può essere un'operazione parallela, da realizzare nel giro di 2 anni per arrivare alle elezioni (non prima del 2016 secondo me) in modo da provare non perderle, anche se sarà difficile.

martedì 20 gennaio 2015

Un' arte ancora non rivalutata

Tra gioco, cultura e realtà corrisponde a dei contenuti eterogenei, dicevamo. E' una delle rappresentazioni possibili dell'approfondimento e del sapere moderno, viste dagli occhi di chi, come il sottoscritto, ancora non si ritiene un dotto ma un "semplice" affamato di conoscenza, di cultura e di arte. L'animazione è stato uno dei miei campi di interesse fin da bambino, con la crescita è divenuta una passione artistica e di studio, al punto tale da farmi quasi scrivere una tesi di laurea dedicata all' Età dell'oro (poi abbandonata a causa della prepotente crescita dei miei interessi in campo storico). 

Dell' Età dell'oro parleremo in un'altra occasione. Per ora basti capire che la maturità mi ha portato alla convinzione di dover diffondere i giusti meriti della disciplina, mai veramente riconosciuti dalla critica mondiale (e lo dimostra l'impossibilità per qualsiasi lavoro animato di vincere l'Oscar per il miglior film, pur andandoci vicino in un paio di occasioni: cito il premio americano perchè è quello più famoso, solo per evidenziare la questione, non voglio soffermarmi sul giudizio allo stesso, da parte mia ben lungi dall'essere positivo).
Fanno eccezione le pellicole giapponesi, che però non si sono mai davvero dedicate all'animazione fine a se stessa e alla musica che da sempre l'accompagna (se escludiamo qualche autore notevole), ma hanno ben pensato, per usare una frase metaforica ma secondo me chiarificatrice, di dare una trama alla Gioconda. L'animazione come Arte è argomento settoriale, perchè - a torto - non le viene ancora dato lo stesso peso (per citare un'arte diversa al solo scopo di far comprendere) di un dipinto di un Da Vinci o un Caravaggio. Immaginiamo possa accadere in futuro, quando noi saremo polvere, fatto sta che, ad oggi, ancora non è avvenuto.
Mi propongo di utilizzare queste righe anche per tracciare una breve presentazione storica, rifuggendo quindi dall’ignoranza più becera di chi liquida erroenamente come “infantile”, quella che è stata la vera forma d’arte del secolo scorso, la vera pittura dei tempi moderni, capace di raggiungere attimi di estasi visiva senza precedenti. Lo faccio riproponendo una mia vecchia ricerca datata qualche anno, ma che ben si sposa con l'obiettivo "archivistico" di Tra gioco, cultura e realtà.

Walt esibisce i suoi sette gioielli
Quando si parla di animazione, viene spontaneo pensare al nome di Walter Elias Disney, questo folle factotum, disegnatore, autore, produttore e animatore che con le sue opere ha sconvolto il mondo, stupendolo e qualche volta anche irritandolo. Molti profani lo ritengono addirittura l’inventore della disciplina, e sebbene questa affermazione sia completamente fuori della realtà (il  concept ha delle radici risalenti addirittura all’antica Cina), presenta qualche elemento credibile: Disney è stato senza dubbio colui che ha lanciato l’animazione, che gli ha conferito per la prima volta visibilità, che ne ha elevato il rango portandolo ai livelli del cinema tradizionale: ma più di ogni altra cosa, a lui si deve l’inscindibile correlazione consolidatasi, soprattutto in occidente, tra il disegno animato e l’elemento musicale.
Per anni, la Walt Disney Pictures è stata identificata con il suo creatore, e dopo la sua morte nessun altro autore ha raggiunto la medesima popolarità mediatica. Storicamente però, Disney un erede autentico lo ha avuto, non certo geniale come il maestro, né minimamente intraprendente allo stesso modo, ma che ha segnato la vita della compagnia e della sua produzione artistica negli anni ’60 e ‘70.

Wolfgang Reitherman
Parliamo di Wolfgang Reitherman, animatore di spicco della compagnia, giovanissimo, sin dai tempi della produzione di Biancaneve (1937). Chiamato dai colleghi affettuosamente Woolie, Reitherman ha diretto tutti i film Disney dell’epoca,  gli ultimi due prima della morte di Walt (La carica dei 101, La spada nella roccia) per poi distinguersi in opere quali Il Libro della Giungla, Gli Aristogatti, Robin Hood. La sua fama in seno alla compagnia si accrebbe in conseguenza dell’appartenenza al gruppo dei cosiddetti Nine Old Men, a cui appartenevano anche artisti quali Frank Thomas e Ollie Johnston, che lavorarono con il regista tedesco fino alla fine degli anni ’70. 

Così chiamava il suo gruppo di “fedeli” lo stesso Walt Disney, accostandoli metaforicamente a Franklin D. Roosevelt e ai nove giudici della Corte Suprema americana, forse per il valore indiscutibile degli artisti e per l’apporto decisivo che diedero nella realizzazione delle sue idee.
Gli anni di Reitherman, comunque, furono insoliti per una compagnia come la Disney. Chiunque erroneamente pensa al gigante americano come una casa produttrice che non badava mai a spese quando si trattava di produrre un lungometraggio, che si allontanava dalle politiche al risparmio proprie dei giapponesi. In realtà, non è stato sempre così.
Era senz’altro indubbio che una produzione Disney (e occidentale in generale) restasse, come budget e impegno “umano” quantificabile, sempre su un altro pianeta rispetto alla nascente concorrenza orientale, ma negli anni che raccontiamo anche a Burbank tirarono il freno a mano su questo fronte. 

La compagnia veniva da alcuni insuccessi commerciali piuttosto pesanti, dovuti in parte alle scelte artistiche estremamente coraggiose di Walt, e in parte alla sorte avversa: sicuramente, il filone dei concerti filmati (Fantasia, Musica Maestro) fu per la compagnia fu un vero salasso, ma non aiutò nemmeno l’insuccesso di pellicole teoricamente blockbuster quali La Bella Addormentata, all’epoca passate in sordina a causa dello stile particolarmente originale.

Sono gli anni della Xerox, inventata da uno degli ultimi collaboratori di Walt, Ub Iwerks: non siamo tecnici allo spasmo e non entreremo nello specifico, ma in pratica essa permetteva di fotocopiare rapidamente sulle cell (le plastiche atte a “impastare il disegno” per poi colorarlo) fotogrammi già utilizzati in passato. Ecco perché, tra una Carica dei 101 e una Spada nella Roccia, finendo con una Bianca, lo stile estetico era sorprendentemente rassomigliante, fatto di quelle immagini spigolose, quelle matite accentuate, e talvolta, vere e proprie scene riciclate con dei personaggi differenti (penso soprattutto alla festa jazz degli Aristogatti e a quella nella foresta di Robin Hood).
Tutto in full animation, nulla che ricordasse solo lontanamente le stasi prolungate degli Anime, per carità. Fino a Le avventure di Bianca e Bernie (1977), il filone stilistico fu pressochè continuo, e Reitherman entra pertanto nella storia per essere stato l’unico regista dopo Walt ad aver seguito un percorso artistico ben definito ed estremamente personale. Dopo il suo pensionamento, nel 1981, la Disney prese altre strade,  alcune fallimentari ma sperimentali oltremisura (Taron e la Pentola Magica su tutti, ad oggi l’unico classico Disney ad aver esplorato il Fantasy) per poi tornare ad investire seriamente e dar vita a quel filone ormai mitologico partorito negli anni ’90.
Il valore indiscutibile di quelle pellicole dimostrò ancora una volta che la tecnica nell’animazione, pur rivestendo un ruolo primario, poteva non essere accentuata oltremisura, purchè tenesse fede al principio cardine della disciplina: animare, senza sosta, senza pensieri, dritti per la propria strada, offrendo prima di tutto uno spettacolo visivo che oggi anche autori giapponesi come il mai troppo lodato Miyazaki hanno dimostrato al mondo di poter finalmente curare degnamente.

La democrazia

L'anno era il 2007, il regista era il polacco Andrzej Wajda, il film si chiamava Katyn. L'argomento non era l'Italia, o meglio, non lo era direttamente: si parlava del massacro di oltre 20.000 polacchi perpetrato dall'esercito sovietico nel 1940, di cui fino al crollo del muro e dell'URSS si era data colpa alla Germania Nazista. Un teatrino imbastito con la complicità - tra l'altro - delle altre potenze vincitrici.
Eppure, nonostante un successo notevole in patria, il film in Italia si vide impossibilitato ad essere distribuito: solo 12 le copie, a seguito di altre censure avvenute sia in Polonia che nella stessa Russia. C'è tanto amore di verità, che strano.

L'anno è il 2014, il regista è lo sconosciuto Antonello Belluco e il film si chiama Il segreto di Italia. L'argomento stavolta è tutto nostrano, personificato nella donna protagonista, che ricorda oltre 130 soldati della Guardia Nazionale Repubblicana sommariamente fucilati a Codevigo nell'aprile del 1945, a guerra ormai finita e caduta del regime fascista ormai consolidata anche nel - futile - ramo repubblicano.
Allora come oggi ci si impelaga in giudizi faciloni sulla presunta mediocrità dei film in questione: un fatto che, francamente, ci interessa meno di zero. C'è robaccia che tratta di nazismo, antisemitismo e fascismo che ha avuto fortune ben superiori alle sue mediocri qualità, ma non è di questo che si parla: il film manco l'ho visto (ad essere sincero non ne ero neanche informato, pur essendo interessantissimo al tema, il che la dice lunga sulla genuinità dei canali distributivi verso l'autore), anche se lo farò quanto prima. 
Oggi, a differenza di allora, c'è un salto di qualità: non solo di critica il regista e la produzione bollandoli come fascisti ( ammesso e non concesso che un ideale morto, ma pur sempre ideale, di qualsiasi natura esso sia, possa costituire una forma di insulto ) ma fa pressione, chiede al signor Belluco una copia in anticipo, fa campagna di boicottaggio e ostacola la distribuzione in un mondo che si dice oggi democratico.

Il signor Belluco, di cui non conosco le qualità come regista (pur consapevole che se avesse trattato di altro manco gli sarebbero state richieste con tanta insistenza), prima di Natale aveva risposto con fierezza e dignità con un comunicato stampa. Simone Cristicchi, probabilmente uno dei pochi artisti in questo Paese a non aver sposato il solito lato del letto politico che da sempre permette di andare avanti (si pensi ad un maestro del cinema come Pupi Avati che per emergere ha dovuto autoprodursi) lo ha riportato pochi giorni fa integralmente su facebook. Lo faccio anche io.




Sul film “Il Segreto di Italia” di cui sono regista, come su tutto, ciascuno è libero di dire la sua. Deve essere chiaro però che, un giudizio che possa vantare credito in merito ad un lavoro cinematografico deve provenire esclusivamente dai due soggetti che sono titolati a rilasciarlo.
Il primo sono i critici cinematografici. Questi hanno per lo più taciuto, ovviamente tengono famiglia: il film non è politicamente corretto o meglio… potremmo dire non è allineato con settanta anni di vulgata storica fatta solo di buoni e cattivi su cui si sono arroccati i poteri forti nel nostro Paese.
Il secondo soggetto è il pubblico il quale, per la terza settimana, sta riempiendo l’unico cinema nel quale IL SEGRETO DI ITALIA è attualmente programmato: The Space Cinema di Limena di Padova.
Questi sono i fatti. Se due esponenti padovani dell’Associazione Nazionale Partigiani, scrivono che è un film “brutto e dilettantesco” il giudizio, io dico, non ha valore artistico ma solo politico; e se i giornalisti conformisti riprendendo questi giudizi e pontificano che le distribuzioni non lo vogliono per tale motivo, ingannano l’opinione pubblica come hanno sempre fatto per settanta anni e ancora fanno, per difendere un sistema.
La verità è che per andare nelle sale cinematografiche a dicembre ci vuole un portafoglio colmo di soldi da anticipare alle distribuzioni, soldi che Il Segreto di Italia non ha.
Questa è l’Italia, un Paese dove dalla fine dell’ultima guerra si è nascosto un eccidio efferato di uomini e donne e se qualcuno ne parla, facendo un film, quell’opera è già una “schifezza”.
E se più di 3000 persone che lo hanno già visto lo hanno giudicato eccellente? Allora sono tutti di Forza Nuova e di Casa Pound.
In questo paese registi del “sistema”, spendono, certo non di tasca propria, milioni e decine di milioni di euro per fare un film. Il Segreto di Italia ha avuto venticinquemila euro dalla Regione Veneto, il resto, per arrivare complessivamente a meno di duecentocinquantamila euro, è arrivato dalla generosità di contributi privati.
Se i critici tacciono il pubblico apprezza.
Esponenti dell’ANPI, per lo più oramai costituita da “partigiani” nati a guerra finita, ma che sopravvivono grazie a una montagna di soldi succhiata dalle nostre tasse, denigrino pure il mio film. Io ho parlato di argomenti dei quali ci voleva coraggio a parlare, l’ho fatto con il cuore e senza budget in tasca, mentre a sparare sentenze a spese dello Stato sono capaci tutti.
Il film ci è stato richiesto in varie città per gennaio. E’ una lenta macchia d’olio che arriverà ovunque. Abbiate pazienza e aiutateci nelle vostre zone proponendolo agli esercenti.
Ad aprile/maggio uscirà il Dvd, il libro sul percorso del film e il cd della colonna sonora.
Stiamo lavorando perché questo progetto di verità continui: “ROSSO ISTRIA” è la sceneggiatura che andremo a realizzare il prossimo anno, salvo impedimenti, per parlare delle foibe.
Lavoriamo perché sia riconosciuta la verità e su questa progettare il senso di identità, unità e pace che caratterizza un popolo come il nostro.

Buon Natale a tutti voi!


Non credo ci sia altro da aggiungere a questa triste vicenda. Rimane la denuncia verbale, la ferma condanna e la speranza che i pochi, in questo Paese, senza colore politico (ai quali in tutta onestà non appartengo), possano, con gli occhi innocenti che li contraddistinguono, un giorno essere la vera maggioranza, nel popolo come nelle classi dirigenti. Perchè solo così la pacificazione potrà essere più che un pallido miraggio. Sperare nella buona fede delle persone è virtualmente impossibile: sperare di rispettare vicendevolmente ideali (indipendentemente dal colore) che hanno rappresentato per tanti un modo per migliorare la propria casa e la propria gente è ad oggi ugualmente impossibile.

A voi.

domenica 18 gennaio 2015

Nintendarità applicata & comparata

Questo è Captain Toad, l'ultimo uscito su Wii U.
La vita è davvero bizzarra, anche nei videogiochi. E' capace di farti provare sensazioni che vengono rifuggite e magari adorate se riproposte in salse più curate e approfondite.
Mi capitò nei primi anni 2000, quando Nintendo inserì nella sua edizione GBA di Zelda: A Link to the Past quel certo Signor Four Swords, una modalità multiplayer che francamente non mi impressionò né attirò per nulla. Da quel granello di sabbia nel 2004 Kyoto tirò fuori un prodotto intero per Gamecube, il risultato fu quel Four Swords Adventures che è uno dei migliori giochi mai fatti nella storia della Grande N. 
Altri piccoli progetti, semplici e dal budget non superlativo, si trovano a fare la storia: sempre in casa Gamecube,  Luigi's Mansion fu uno di questi, un vero cult del lancio di quella macchina.

Insomma, boh, di chi parliamo? Ah sì, del Capitano, quello che in casa Nintendo si chiama Toad. O per meglio dire quello che gli amici oggi chiamerebbero Mounsier Design, il manifesto della nintendosità fatta gioco. Quel funghetto protagonista del contenuto di Super Mario 3D World che mi diede noia: grande fattura come sempre in casa Nintendo, ma lentezza senza sbocchi reali, ripetitività e in sostanza mancanza di idee dietro un'idea di base però interessante. Micromondi da esplorare in un quadro singolo sullo schermo, nemici più da evitare che da combattere, assenza del salto e, di fatto, della corsa. Che ci fosse qualcosa di valido lo avevo notato, ma non credevo minimamente si sarebbe mai potuto trasformare in un gioco così soddisfacente e soprattutto non ripetitivo. Poi quel meraviglioso trailer, rilasciato qualche mese fa, che puzzava di capolavoro lontano un miglio. Quell' anatroccolo, di certo non brutto ma modesto, è diventato uno splendido cigno. Reinterpretandolo un po', come è d'obbligo: i micromondi sono più di una volta tendenti all'extralarge e la varietà è di ben tutt'altra pasta. In certi frangenti sembra proprio di giocare un super mario in 3d con l'handicap del salto mancante.

Toad segue la strada di altri predecessori, completamente diversi come giochi, molto più simili di quanto si pensi nello spirito:  Luigi's Mansion e Four Swords non hanno nulla di evidente in comune con il funghetto,  ciò che di nascosto c'è, però, è assai importante.
Il primo condivide il basso profilo e le risorse impiegate stracontate (anche se niente a che vedere con le cifre probabilmente bassissime stanziate per Toad), il secondo l'origine di contenuto spin off che si trasforma, come la zucca di Cenerentola, in una splendida carrozza.

Certo, Four Swords è  stato un capolavoro immortale, il capitano fungo non può reggere il confronto: però la metamorfosi in un gioco completo, ancorchè non particolarmente lungo ma dannatamente divertente e vario, è un fatto rilevante. Un fatto di grande nintendarità pure in questo: realizzare il tanto con il poco, con qualcosa che in molti hanno definito non a caso il più indie dei titoli made in Kyoto.

Bastano poche mosse per fare scacco matto: engine strariciclato da Super Mario 3D World, stesso motore, pezzi di level design combinati in modi diversi e messi insieme, poi un personaggio principale differente, altri controlli e meccanica, dopodichè solo uno sbizzarrimento continuo in salsa di 64 livelli.
Insomma, si è fatto un miracolo con due spiccioli, come da tradizione nintendosa. Un miracolo non perfetto, certo: pochi boss, forse qualche livello in più si poteva fare, modalità extra abbastanza stupida e fastidiosa.

Ma questi sono i piccoli cult, quei mezzi capolavori che poi veri capolavori non sono.
Però ne mostrano fragranze, tocco e magia: e allora dopo anni ti ritrovi a discutere ancora se siano capolavori o meno, e magari rivedi le posizioni del decennio addietro. E la pietra miliare rimane, come sempre, viva.

Amata in modo quasi unilaterale dalla critica.

venerdì 16 gennaio 2015

La monopolizzazione di una carica

La sinistra si avvia, tanto per cambiare, a imbastire le solite trattative intrise di finta democrazia per eleggere il nuovo capo dello Stato. 

Un capo dello Stato che, dalla caduta del muro di Berlino in avanti, è sempre stata sua espressione, senza eccezioni. Certo, solo uno appartiene al ramo degli excomunisti precedenti alla svolta della bolognina, ma tutti, sempre senza eccezioni, appartengono al nuovo blocco politico di centrosinistra formatosi dopo la fine della Guerra Fredda e l'inizio del bipolarismo italiano. 
Scalfaro era un democristiano che, in pieno 1992 e dopo lo sfascio di Mani Pulite, abbracciò quella che all'epoca davano tutti per la coalizione vincente. 

Poi Carlo Azeglio Ciampi, un bancario che, come gran parte della sua lobby, sposa la sinistra postcomunista nata dopo la fine della Guerra Fredda. 
Infine Giorgio Napolitano che, come tutti sanno, è l'unico a provenire direttamente dall'ex-Partito Comunista.

Dei tre, salvo solo Ciampi. L'unico a preoccuparsi in modo quasi genuino di una pacificazione che non arriverà mai se non la si pianta di essere in malafede e di non riconoscere l'esistenza dell' altro, una cosa impossibile in un Paese che ha scritto, per citare Aristotele, una Costituzione dei vincitori senza preoccuparsi che fosse di tutti, tutto ciò tralasciando gli impressionanti limiti mostrati fin dai primi anni della sua esistenza.



Gli altri due presidenti sono stati veramente robaccia:  determinatissimi a far vincere sempre il pregiudizio, a rafforzare ben salda la superiorità etica basata sul nulla, a dividere anzichè ad unire. 



Ora sta per riproporsi la medesima tiritera degli ultimi vent'anni: e di un minimo di alternanza, tanto per cambiare, non se ne parla. Sempre le solite scuse: "a destra c'è povertà" "è solo quello il motivo" varie ed eventuali che nascono sempre dal quel pregiudizio che gentaglia come Scalfaro ha approfondito invece che stemperare, nell'interesse della Nazione per lo meno.

Piccola considerazione: ma come si può mai credere che in un parlamento fatto quanto si vuole di farabutti e incompetenti, il signore indegno ma ehi!, culturalmente preparato e non povero sia solo a sinistra? 
Ciò detto, senza farla troppo lunga, i nomi ci sono eccome: se li si vuole vedere, è chiaro.
Le ragioni dell'esclusione sono le solite:

  1. Non sono sponsorizzati
  2. Motivi culturali e storici che hanno portato la sinistra a monopolizzare una certa idea della cultura e dell'istituzione. Il 1989 ha portato alla fine di certe tendenze, ma ha liberato in maniera irrefrenabile altre.
Di candidati di livello culturale esistono a destra come a sinistra: in modo molto semplice, quelli di sinistra sono mainstream da sempre, nello specifico da circa una settantina d'anni, ma è curioso notare che prim della caduta del muro di Berlino se ne potesse fare tranquillamente a meno, prima che l'imprescindibilità del Verbo al di là delle ex-bandiere rosse si concretizzasse. 
 
Partendo dal basso, ossia dalla meno seria delle proposte che mi permetto eccome di fare visto che qualcuno continua a parlare di Prodi (dico, Romano Prodi, sì quello lì!) dico che se è stato eletto Giorgio Napolitano, di destra basterebbe perfino un Buttiglione qualsiasi: e non sarebbe nemmeno uno qualsiasi.
Per quanto non sia di mio gradimento, parliamo infatti di un filosofo ultrapoliglotta di livello universitario mondiale: se stesse a sinistra sarebbe considerato in ben altro modo. Chi lo nega o mente sapendo di mentire oppure non si rende conto di come va il mondo quando è il suo. 

 
Lanciata la mina esplosiva meno seria, spero ci si renda conto pure che non ci vorrebbe nulla anche solo a lanciare un nuovo nome nel panorama politico, ma se certe "prerogative" sono monopolizzate da qualcuno (per di più spalleggiato volontariamente di un autentico pagliaccio come Berlusconi) non c'è molta trippa per gatti.
Un secondo nome provocatorio fuori dal contesto politico? Guido Bertolaso: passi che probabilmente non accetterebbe, se fosse a sinistra - come sempre - si farebbe la fila per candidarlo o quanto meno per proporlo.

Un terzo nome meno provocatorio? Gianni Letta. Tocca essere molto ripetivi in questa sede, il primo indignato sinistroide deve portare carta e penna, perchè se sono stati eletti Scalfaro, Ciampi e Napolitano non c'è nessun motivo per non eleggere uno come lui (e mi sto pure trattenendo, anche se Ciampi è stato un presidente che ho condiviso perfino io).
Un quarto meno a destra ma per lo meno non a sinistra? Pierferdinando Casini. 

 
Dal momento che io sono stato costretto a vedere come super partes per vent'anni gente come Scalfaro e Napolitano, mi pare sacrosanto ragionare allo stesso modo a parti invertite. La verità è che dal 1989 in poi si sono sciolte delle briglie incredibili: chi prima di quell'anno fatidico preparava tutt'altro futuro politico si è trovato con un'eredità pazzesca sotto il naso. Anche giudiziaria, un problema che rende difficoltosa la vita del Paese in generale, non solo la pacificazione che personalmente desidero ardentemente (anche se mi ritrovo, come spesso accade, ad esser solo).
 

La cosa ironica è che parte di quest'eredità, per motivi squisitamente commerciali e storici, viene ancora in parte finanziata, dopo anni di chiacchiere, dal signor Silvio Berlusconi. 

Che pena!



Un modo di non essere?

Direi proprio di sì, diciamolo subito, almeno se si parla di noi
Perchè questo è l'Italia, e, in particolar modo, questa è Napoli, la mia città che, come l'Italia stessa, amo ma allo stesso tempo odio. I motivi sono sempre gli stessi: nessun attaccamento, servilismo, indegna capacità di difendere sè stessi e la propria identità. Con buona pace dei secessionisti e gli anti-unitari: signori, siamo sempre stati così, negarlo equivale ad evitare la realtà!

Le ragioni di odio rammaricato verso Napoli sono un po' diverse da quelle nazionali, è bene precisarlo. Gli italiani sono un grande popolo, anche se non se ne rendono conto: per lo meno, è grande la loro tradizione culturale, la loro tradizione artistica che si traduce nella maggiore delle loro qualità: le eccellenze che propone come minoranza. E Napoli fa parte, pur in modo contorto e sempre attraverso una minoranza (probabilmente ancora più ristretta) di questa storia "di santi, poeti e navigatori" per utilizzare una frase fatta ma anche abbastanza vera. 
La massa, ahinoi, è purtroppo inerme, pessimista, completamente distante dal qualsiasi concetto di collettivo patriottico ma anche locale (pur inventandosi nazionalismi napoletani, sardi, veneti e dulcis in fundo padani mai esistiti nella storia) indifferente alla propria incredibile storia e alle proprie radici. Quindi il giudizio sugli italiani nel complesso è decisamente meno impietoso: la loro condanna è, essenzialmente, di non essere orgogliosi di ciò che hanno prodotto nella storia, di non essere collettivo, di non sentirsi nazione e, soprattutto, di essere pessimisti oltre ogni logica. Di essere in grado di costruirsi un futuro luminoso in cui, però, l'Italia non ci sarà, come disse acutamente Montanelli.
I problemi? Ce li hanno tutti, moltissimi Paesi tanti in più di noi eppur non cessano di sentirsi orgogliosi delle proprie origini.

Sui napoletani nello specifico la questione diventa spinosa. Qui non si tratta solo di rassegnazione ma di totale incapacità di produrre qualsiasi pur micronico movimento civile e di crescita: al di fuori della elevata minoranza-èlite, il nulla. Un destino che condivide con altre città del centrosud (Roma in particolare somiglia molto per mentalità, ma è salvata dalle istituzioni e dal fatto d'esser ancora capitale) ma che sotto il Maschio Angioino raggiunge nuove vette.
Vette di ostentazione sguaiata di una napoletanità di cui non ci sarebbe nulla da gioire, di grido indegno quando la morte di un popolare artista deve in qualche maniera essere posseduta da una città che non accetta nemmeno la sua sepoltura altrove, bisognosa com'è di idoli, di immagini gloriose che le facciano dimenticare (e contemporanemante non affrontare) i problemi che la attanagliano da sempre, di mancanza di spina dorsale e interesse per tutto ciò che è proprio, dalla terra, alla casa, alla Nazione. Per certi versi la vera capitale d'Italia, colei che la rappresenta in tutti i suoi lati in modo estremo, quelli negativi enfatizzati in maniera ancora più atroce.

Come ho prodotto simili riflessioni? Leggendo questo articolo di una blogger napoletana, scaturito da pensieri sparsi sulla morte di Pino Daniele: un punto di vista sincero, autocritico, di una persona che ha la lucidità per percepire la follia e la superficialità che la circondano. Ne consiglio, ovviamente, la lettura a tutti. Un post in cui mi rivedo molto, da esule, proprio perchè ricordo che, nel mio piccolo, nei miei 25 anni vissuti a casa e rispettando tutte le regole, facevo una fatica mortale, uno stress psicofisico che ha anche influito sulla mia maturazione personale. Incontro napoletani che hanno vissuto il mio stesso disagio, che hanno provato le mie stesse sensazioni di smarrimento, in questo caso li leggo. Un po' come incontro qualche isolatissimo italiano che, come me, vuole bene da morire a questo Paese e soffre, soffre tremendamente nella consapevolezza di essere solo o, quantomeno, accompagnato da pochi altri. 

Quei pochi che, in un certo senso, ci accomunano alla minoranza italica, napoletana o di dove volete che vive sempre nel disagio di avvertire l'Identità in un Paese che un'identità non la sente mai.

Siamo in pochi, ma esistiamo ancora. In Italia come a Napoli. Io continuerò ad esserci anche se dovessi rimanere solo, in queste lande dimenticate da tutti.



domenica 11 gennaio 2015

L'Arte, la cultura e gli pseudocinefili italioti ed europei

Coloro che, purtroppo, affollano le pagine di critica non solo italiane, ma anche europee. Sì, perchè oggi mi sento di parlare di cinema, nella fattispecie italiano, o, se vogliamo prendere alla larga la questione, europeo.

Il motivo? Questa classifica, stilata da Martin Scorsese nell'agosto 2014, in cui il grande regista indica i 39 film non americani che un cinefilo non dovrebbe lasciarsi scappare prima di morire. Tralasciando le opinioni sull'opportunità di proporre graduatorie simili (il cinema ha prodotto tanti di quei film che è umanamente impossibile ridurre l'eccellenza ad una classifica tanto contenuta senza fare torto a qualche grande capolavoro escluso), vorrei concentrarmi sulla linea temporale che si ritrova nell'elenco stilato da Scorsese.

La classifica infatti si ferma al 1976. Il che sottolinea un fatto lampante: ossia che per il signor Scorsese non ci sono film europei, asiatici o comunque non americani irrinunciabili per il cinefilo medio successivi alla seconda metà degli anni Settanta: poco importa dimenticarsi di capolavori come Stalker, Regalo di Natale, Nuovo Cinema Paradiso, Leon, La leggenda del pianista sull'oceano, Nikita, Nostalghia, o i recentissimi La migliore offerta, Il nastro bianco e tanti altri lavori, italiani, francesi, tedeschi o russi che siano, che elevano quest'arte a livelli sublimi.
Non è mia intenzione riproporre l'ennesimo dilemma sul raffronto tra cinema americano e quello del resto del mondo. In USA producono una montagna di film (con una montagna di soldi a supporto), una montagna di spazzatura ma anche tanti film che hanno fatto la storia di questa disciplina artistica.
Comunque la classifica, a mio modo di vedere, al di là della sua implicita incompletezza e superficialità, mostra alcune cose evidenti.
 
Guardando in casa nostra, chi considera il cinema italiano scadente o in crisi rispetto al passato non capisce di cosa sta parlando e, soprattutto, non conosce nè la storia nè il restante cinema europeo, vittima di un'involuzione esclusivamente di notorietà e di botteghini che, invece, la lista di Scorsese evidenzia benone: la prova provata che per chi guida l'industria cinematografica in budget e risorse non c'è stata trippa per gatti proprio a partire dalla fine degli anni Settanta.

Il cinema italiano è una disciplina di grande livello artistico: un Avati, un Tornatore, un Virzì, un Verdone, ma pure un sopravvalutato Sorrentino o Benigni, non sono degli autori di livello comune. Semplicemente, a differenza di De Sica, Monicelli e qualcun altro (ma escludendo anche allora personaggi di grande rilievo come Sordi e Totò, accomunabili proprio a Verdone sotto questo profilo) oggi non possono più godere di nessuna spinta dal solo lato artistico, impossibilitato a competere non solo da un punto di vista economico, ma anche linguistico e culturale: tutti elementi che negli anni '40, '50 e '60 erano ancora di là da venire, perchè lo stesso schiacciante dominio americano ancora non era esploso.
Chi parla di crisi senza sapere nemmeno cosa voglia dire dovrebbe, quindi,  concentrarsi più sul riflesso commerciale e mondiale ormai inesistente di tutto il cinema europeo, non solo di quello italico. Del cinema italiano si possono dire tante cose negative: su tutte che non produca più roba per ragazzi, un difetto enorme che va ad ingrassare i già grandi problemi educativi che affliggono il nostro Paese, o la già citata crisi della commedia,
ma una sana critica non consiste nell'inventare cose che non esistono, ma nell'analizzare i prodotti.
Chiudo approfondendo la tristezza che mi provoca leggere una classifica del genere, fondamentalmente interessata solo alla matrice non dico commerciale ma "d'eco pubblica" di un film. Davvero di basso profilo, e per di più da parte di una mente di grande livello quale è quella di Scorsese.

Per carità, avrà anche diritto alla sua opinione. Ma fermare la tradizione cinematografica europea al 1976 ha poco di critico. Anche se, e qui la tristezza aumenta, la maggior parte dei giovani sarebbero d'accordo con lui: che poi molti di loro non abbiano visto manco per sbaglio I soliti ignoti, se non per puro gusto radical chic, è un altro discorso.

giovedì 8 gennaio 2015

Leggendo Ida Magli

E rimanendo colpito dall' audacia, dal senso dell'identità di un'arguta novantenne che, negli ultimi anni della sua vita, non rinuncia alla lotta. Quello di Ida Magli non è un semplice anti-europeismo, ma la riscoperta di sè stessi, in un mondo che ci vorrebbe omologati, senza razze, culture, nè popoli. Senza le bellissime differenze che contraddistinguono la specie umana, sovente oggi chiamata "razza" anche da scienziati politicamente inclini a diffondere il nuovo verbo. Un futuro grigio, piatto, sicuramente peggiore dell'attuale. Un plauso a Ida.


Contemporaneamente sono state eliminate, per ordine dell'UE, antiche, nobilissime ed essenziali discipline come la geografia, la letteratura latina e greca[...]riducendole tutte a fantasmi [...] la storia [...] sembra diventata un residuo d'altri tempi [...] anche questo deciso e messo in atto nel più completo silenzio. Sembra di vivere in una società di analfabeti, dove nessuno è in grado di valutare e di esprimere giudizi su simili provvedimenti [...]. Hanno dettato anche il tipo di insegnamento cui i sudditi debbono essere sottoposti: gli studenti debbono studiare in modo da non imparare nulla, o quasi nulla. Non imparare a pensare, o imparare qualcosa su di sè, sulla propria storia.
Sembra evidente che tutto questo sia stato programmato in vista dell'ideologia di chi comanda l'Europa, o almeno di chi comanda questa ideologia: l'omogeneizzazione mondiale, la formazione di persone tutte uguali: i "cittadini del mondo"



lunedì 5 gennaio 2015

Un virtuosismo del ricordo

La mia esperienza con Pino Daniele comincia in tenera età: a Napoli non poteva essere diversamente, visto il bombardamento mediatico che si opera verso una città disastrata e depressa ogni qualvolta esprima qualcosa di rilevante dal punto di vista culturale.

E' successo con Troisi, con lo stesso Pino Daniele e qualche anno fa anche con il dream team del teatro salemmiano (anzi, quest'ultimo è stato pure sottostimato vista la eccellente produzione artistica). Purtroppo qualcuno prova a farlo pure con quella triste e misera figura rispondente al nome di Alessandro Siani: e purtroppo, finchè gli incassi daranno ragione allo pseudo artista, non ci sarà molta trippa per gatti per la esile speranza di poterci liberare di lui.

Comunque, a differenza dell'amico Troisi, eccellente cabarettista (a mio parere enormemente sopravvalutato sul fronte cinematografico), fatico a trovare nella storia di Pino Daniele un elemento di enfatizzazione estrema. E lo dico da umile ascoltatore di musica che, non avendo mai potuto coltivare questa mia passione al livello delle altre, ha realmente notato un distacco tra l'arte che Daniele ha proposto e tanti parti pessimi della cultura locale napoletana (si pensi, di nuovo, a Siani ma anche a personaggi per fortuna scomparsi come Biagio Izzo). Dimostrando cosa? Ciò che è sempre stato proprio di Napoli e dell'Italia in generale, tanto deprimente sul fronte civile e tanto elevata in tutto ciò che è minoranza, èlite, in questo caso arte e cultura. 

Una cultura che Daniele non serbava dentro di sè, non stiamo parlando certo di un dotto, ma che è riuscito sorprendentemente a produrre nell'incontro tra blues e melodie mediteranee. 

Voglio ricordarlo, non con Napulè, Quanno chiove, Quando e altri pezzi strappalacrime, ma con una delle melodie che sconvolse la mia vita di ragazzino: Uè man
La  dimostrazione migliore, secondo me, della musica possente di quest' uomo, un esercizio di virtuosismo continuo, pura passione concentrata in minuti in cui gridava al mondo quello che lui sarebbe sempre stato: non un grande cantante, vista la sua voce esile e poco incline agli acuti, ma, porca miseria, come suonava lui lo facevano in pochi.

Ciao grandissimo, possente, infinito Pino.




giovedì 1 gennaio 2015

Un motivo di vergogna per un'intera tradizione artistica

Si parla di quella napoletana, chiaramente.
Sì perchè, a dispetto di un' educazione civile virtualmente inesistente Napoli, come tutta l'Italia, dimostra il suo meglio nei singoli, nelle minoranze intellettuali, nella tradizione giuridica e, ovviamente, in quella artistica, nel teatro come nel cinema.
Signori! Qui si sono avuti Eduardo, Peppino, Totò, Enzo Turco, Nino Taranto,  recentemente Vincenzo Salemme, Carlo Buccirosso e Nando Paone con le loro sfavillanti commedie teatrali. Pesi massimi della recitazione nazionale: e non solo, non fosse che l'italiano è una meravigliosa lingua a diffusione - purtroppo - minore e quindi incapace di competere con i giganti mondiali.

Non si può accettare la presenza di un energumeno come Alessandro Siani. Non solo per l'imbarazzante livello della comicità: di flop napoletani ce ne sono stati tanti, da Nino d'Angelo a Biagio Izzo senza dimenticare Gigi D'Alessio, la costante è che nessuno di questi soggetti si è proposto o è mai stato proposto come nuovo nome napoletano nella commedia classica nazionale (o della musica leggera), ma sempre defilati in sottocategorie, ruoli secondari, e soprattutto non dietro la macchina da presa o un qualsivoglia ruolo suppostamente elitario.

Il grave del fenomeno Siani è proprio questo: non semplicemente il solito peggio dell'arte napoletana che, come per tutte le altre,  si è vista negli anni e sempre si vedrà, ma soprattutto per il ruolo che sta cercando di avere come regista di primo piano, commediante pseudorifinito e, da oggi, come potete vedere in questa brillantissima intervista, pure pseudo-intellettualoide che disquisisce di valori sociali, di luoghi comuni abusatissimi, di arrangiamenti made in napulè sconosciuti a un Nord che infatti non fa che invidiarci dalla mattina alla sera.

Qualcuno mi dirà che per promuovere un film si fa di tutto: rispondo che a livelli così bassi ci si arriva quando, tanto per cambiare, non si ha nulla da dire. Se non le frasi fatte, i luoghi comuni, la pizza, il mandolino, il mare, e Ciruzz a mergellin'. Sperando che il 99% dei napoletani, alle critiche, risponda con i fatti e non "avvertendo dolore" come il nuovo filosofo di sta ceppa sentenzia.

Il tag di quest' anno per chiunque sia napoletano non può che essere questo: #quandocenelibereremo?